Per qualche tempo, Fiona Apple e Paul Thomas Anderson sono stati una coppia.
Lei era una ragazza prodigio che non sapeva ringraziare bene in pubblico (vedi la cerimonia degli Mtv Awards nel 1997) e scriveva testi di carta vetrata, lui un bizzarro regista che faceva piovere rane sulle macchine. Tutt’altro che prolifici, ed estranei da diversi anni, sono riapparsi con opere che potrebbero avere qualcosa in comune.

PTA ha iniziato a girare film molto seri con una predisposizione per gli assoluti (la Famiglia, il Capitale, la Religione) in una dimensione quasi astorica. Sono pellicole fatte di catrame e verde minerale che descrivono un’America sempre possibile. Fiona Apple di assoluti ne ha sempre avuti- sull’amore, soprattutto”“ ma astorica non lo è mai stata. Perfettamente a suo agio con i 90s, tanto da diventare un’icona di quella decade, poteva riproporsi con un disco radio friendly che riassumesse il meglio di quella stagione e la confermasse per quel che è: una ragazza complicata più furba di Tori Amos.

Al contrario, il nuovo disco di Apple““ che arriva dopo un intervallo di sette anni”“ sprofonda in un universo retrodatato, un po’ grottesco e mai davvero malinconico che ha più a che fare con “Boardwalk Empire” e “There will be blood” che con le melodie altamente digeribili a cui i 90s ci hanno abituati. Piuttosto che confrontarsi con sonorità  contemporanee”“ un’opzione che sembra negarsi a priori di questi tempi”“ Fiona Apple ha preferito andare indietro.

Molto indietro, nello specifico: si è seduta al pianoforte con la giarrettiera bene in vista e le spalle voltate al bancone (“Hot Knife”), poi ha assoldato l’orchestrina vaudeville di turno e si è lasciata consolare da marimbe waitsiane, percussioni ovattate e pseudo-grammofoni.

Apple i testi li ha sempre scritti come si deve. Non cercherà  il mito fondante d’America, lei, ma quello tra due persone sì: nella deliziosa “Anything We Want” arriva a ipotizzare le funzioni di un’infanzia condivisa tra due persone dal corpo molto più adulto. La sua bravura sta nell’essere cruda senza essere oscena, laddove cantanti più giovani e smaliziate come Azealia Banks e le Haim non si pongono minimamente il problema (al confronto Henry Miller pare un chierichetto), in “The idler”…” si parla di ventagli, di baci su angoli di pelle che sporgono a malapena dai vestiti e chaperon. E però alcune cattiverie di ispirazione organica ci sono lo stesso: perchè le lacrime le si calcificano nello stomaco e perchè lei è solo un tulipano in un vaso, come si pretende che cresca?.

Se il singolone “Every Single Night” era solo la timida avvisaglia di certe tendenze”“ che sono fuori moda sì ma non nel senso irritante dei Dresden Dolls““ il resto di “The idler”….” esibisce la propria astoricità  senza riserve. E non assumendosi la responsabilità  del proprio tempo, è possibile che ottenga gli stessi risultati di Paul Thomas Anderson: quelli di una narrazione sussultante, romantica e potente che potrebbe essere tra noi da sempre. In altre parole, una narrazione elegante. Classica. E, se vogliamo dirla tutta, anche soporifera.