Tra le menti che per prime hanno immaginato il dubstep e hanno poi continuato a forgiarlo, Mark Lawrence, meglio noto come Mala, è forse l’unico che ancora non aveva esordito con un lavoro sulla lunga distanza (non si contano, invece, gli innumerevoli e pregiati ep e dodici pollici). Lo fa in questo duemiladodici, affrontando il suono di South London tramite un’ottica nuova e spiazzante: chiaro sin dal titolo, l’album di debutto di Mala nasce a Cuba, frutto di un viaggio (e della successiva immersione, tra jam e collaborazioni, nella scena musicale locale) promosso dalla Havana Cultura, iniziativa della Brownswood Recordings di Gilles Peterson.
è ben diversa la distanza che può correre tra un musicista come Ry Cooder che inventa il disco “Buena Vista Social Club” e Mala, produttore dubstep, che scopre affinità  tra i proprio suoni e quelli indigeni dell’isola: come possono l’oscurità  e la narcolessia urbana dei bassi di Londra fondersi con i ritmi solari ed incalzanti delle strade de L’Avana?

Una risposta arriva già  dal primo pezzo, una “Mulata” il cui inizio pare provenire dall’ormai storico album per poi synthetizzarsi in geometrie inedite. Ma non è comunque una risposta univoca e neppure un semplice sovrapporre tradizioni (forse non così) lontane, come suggeriscono l’intreccio tra percussioni autoctone e scarna elettronica di “Tribal” o i levigatissimi drop che s’insinuano tra i timbali di “Changuito” creando scansioni quasi jungle.
E Cuba è (anche) samba, dunque una nuova sfida: interpretarla oscura e scattante come in “Revolution” o gioiosa ed energica come fa meravigliosamente “Cuba Electronic”?
Se principalmente è il genio di Mala a mettersi a disposizione degli istinti isolani, non mancano ribaltamenti importanti (il classicismo londinese di “The Tunnel” e gli implacabili climax di “Curfew”); ma l’inventiva è tanta, il materiale da cui attingere insperatamente ampio e i risultati sempre piccole perle, dalla nenia downtempo di “Como Como” (impreziosita dalle voci di Dreiser e Sexto Sentido) ai sentori space-techno di “Ghost”, dalle trame jazzy sul finale di “Change” alle dolci reminiscenze in levare su base d’n’b della conclusiva “Noche Sueà±os”, interpretata con grande classe e sensualità  dalla cantante Danay Suarez.

Disco che tutti presupponevano autorevole (e certamente lo è, nell’individuare nuove strade per il post-dubstep e nel sapiente mix di elettronica e musica strumentale), ma che convince soprattutto perchè dannatamente bello.
Da avere.