Quando parliamo di Cesare Basile, parliamo di un pezzo di storia della musica indipendente italiana, di una carriera fortemente voluta e portata avanti secondo regole proprie. Come quelle che lo hanno riportato a casa, in Sicilia, a Catania, nuova tappa di  un cammino artistico fatto di nessun compromesso e molta fatica. Un ritorno all’insegna dell’impegno sociale verso la Federazione siciliana per le arti e la musica (Arsenale) e il teatro Coppola occupato nella sua città  natale; impegno sociale certo, ma pure manovale. Durante questo periodo di grande fatica sono state scritte le canzoni che compongono l’ottavo omonimo disco di Cesare Basile, una scrittura lunga e, a detta dell’interessato, spontanea ai limiti dell’inconsapevolezza. I testi che impastano italiano e dialetto raccontano le storie della gente comune: matti, anarchici, lavoratori di giornata, donne in ginocchio, assassini per esasperazione, tamburini che si fanno la libertà  da soli. Come Basile da solo si fa una lingua, che è sì italiano, certo il siciliano, ma che è anche altro, di altrove, d’altri tempi. Come la libertà , appunto. Ma non c’è un tempo per la libertà . La libertà  si fa sempre. Si fa riappropriandosi della peculiarità  maggiore della musica d’autore cioè lo scagliarsi contro il potere costituito, per troppo tempo accettato quando non fiancheggiato da un’arte annacquata, sedicente senza padroni e quindi buona per ogni padrone.

Avevamo lasciato Cesare Basile appannato romanziere, lo ritroviamo tirato a lucido nell’arte che più gli compete, capace di essere unico e necessario, un autore classico che scolpisce i versi nella roccia.

Photo Credit: andrea Nicotra