Vedere i  Mono a Roma, a distanza di  3  anni esatti dalla loro ultima apparizione, era un dovere per il sottoscritto. Dopo il poco entusiasmante “For My  Parents”, avevo addosso una forte curiosità  di assistere il concerto del quartetto giappone. Avrei preferito trovarmi in quei bellissimi  live con l’orchestra a seguito, ma per questa fredda serata di febbraio dovrò accontentarmi dell’essenziale. La location è un  Traffic non pienissimo, con un pubblico anzi fin troppo chiacchierone per miei gusti. La musica dei  Mono merita un silenzio assordante per essere apprezzata, tra i suoi ritmi talvolta pacati, talvolta esplosivi. 100 minuti comunque di puro post-rock senza pause, eccetto i momenti di silenzio tra un   pezzo e l’altro. Si assiste ad un  live sobrio come   tutta la performance, con i solo 4 giapponesi sul palco. Niente archi (grande assenza) per accompagnare quei  brani capaci di emozionarti. Oltre a questo, la timidezza dei  post-rocker ha fatto tutto il resto, impegnati soltanto nell’eseguire solo la musica, senza parole o ringraziamenti  da contorno. Al massimo un cenno di saluto alla fine per ringraziare i presenti e scomparire dietro il palco.

L’esibizione comunque rimane fedele alla versione ‘disco’ di ogni brano  e la scaletta regala brividi ai presenti.  Lo scenario nebbioso ed un sottofondo di onde crea l’atmosfera di apertura del concerto.  Non a caso si parte da “Legend”, brano che apre l’ultima fatica, brano che introduce una dolcezza malinconica marchio di fabbrica dei  Mono. Poi  segue “Burial  At  Sea” con i suoi arpeggi  capaci di    evocare in mente scenari tristi  che precedono  un finale distorto ed assordante. “Dream  Odissey”  avvolge tra le sue note di piano e quel suo crescendo intenso e straziante. “Pure As  Snow” crea una degna colonna sonora personale,  in cui  bastava chiudere gli occhi ed esserne coinvolti.

“Follow  The Map”  prova a buttar acqua sul fuoco impetuoso acceso dai giapponesi. Qui  probabilmente ci  voleva il totale silenzio per apprezzare la poesia trasformata in musica.  Dopo  arriva il momento  “Unseen  Harbor” ed i suoi 14 minuti intensi, che giro dopo giro si intensificano sempre di più. “Ashes  In The Snow” riscalda i presenti con le sue note e con la sua forza. Uno dei brani migliori della serata. Preludio del gran finale lasciato a due capolavori (a mio parere) come “Halcyon”, che anche senza l’aiuto degli archi, rimane un pezzo stupendo, non a caso applauditissimo. E poi con “Everlasting  Lights”, il finale perfetto, che viene riproposto come tre anni prima, con gli stessi brividi finali.  Poi i timidi saluti con la  semplice mano alzata, senza bis o altro. Alla fine un concerto  essenziale, ma non privo di emozioni.

Credit Foto: Renee Chun, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons