Che Peter Heyes e Robert Levon Been, aka Black Rebel Motorcycle Club (BRMC), dopo il fortunato esordio (risalente ormai a quasi 15 anni fa) si siano cullati sugli allori della formula shoegaze a tinte blues è cosa ormai nota. Così come è ormai consumata l’idea che gran parte di noi ci si è fatti di loro: veri animali sul palco (i loro show sono pura dinamite!), pigroni in studio dove i tempi di gestazione sono sempre stati abbastanza lunghi (una media di un album ogni tre anni), e dove, riprendendo il concetto iniziale, la voglia di sperimentare non è mai stata troppa.

Tortuoso è stato il percorso che ha portato il combo di San Francisco a registrare il nuovo “Specter at the Feast”. L’improvvisa scomparsa di Michael Been, padre di Robert, nonchè roadie del gruppo, è stata per questi un fulmine a ciel sereno che è andato inevitabilmente a lasciare il segno nella nuova produzione targata BRMC. Non che il suono del duo Been/Hayes (alla batteria ormai è fissa la presenza di Leah Shapiro) sia mai stato particolarmente ‘colorato’, ma in questo nuovo capitolo il tutto si fa ancor più cupo e cavernoso.
Registrato in parte nello studio di Dave Grohl a Los Angeles e ultimato nell’arido Joshua Tree negli studi Rancho De La Luna, “Specter at the Feast” corre il rischio di passare per la più anonima e impalpabile delle produzioni della formazione losangelina. Ascoltando e riascoltando le 12 tracce infatti, quelle che alla fine riescono ad emergere dalla fitta nebbia che avvolge l’intero album non sono più di tre/quattro. Tra queste la ballata dal sentore beatlesiano “Lullaby”, le sterzate elettriche di “Teenage Disease” e “Funny Games” che probabilmente si sarebbero trovate più a loro agio nel precedente “Beat the Devils Tattoo” e la cover di “Let the Day Begin” (riuscitissima), scelta come primo singolo, di quei The Call di cui proprio Michael Been era la voce, mentre le restanti del lotto, se dalla loro hanno quel muro del suono che ormai è diventato una sorta di marchio di fabbrica, mancano di quel guizzo e di quel fare ‘selvaggio’ che aveva caratterizzato le prime uscite di Hayes/Been e che andrebbe a smuovere la piattezza di un suono ormai vuoto e prevedibile.

Una delusione quindi, per molti l’ennesima, da parte del gruppo che alla fine degli anni 90 era riuscito ad infiammare e riportare in auge l’esplosività  del rock’n’roll e che ora rischia di andarsi a spegnere miserabilmente come una candela privata del ‘suo’ ossigeno.