I Peace sono, insieme ai Palma Violets, i nuovi cocchi della stampa inglese e non solo di quella musicale. Uno di quei gruppi che i giornali sembrano adottare automaticamente e in blocco, seguendone con passione singoli, EP, fino all’esordio sulla lunga distanza. I quattro di Birmingham (i fratelli Harrison e Sam Koisser, Douglas Castle e Dominic Boyce) hanno completato tutte le tappe di questo percorso e con “In Love” arrivano alla prova del nove, al momento in cui devono mettere da parte i simboli della pace disegnati su mani, pelli leopardate e perline varie per dimostrare sul serio quel che sanno fare.

Un primo disco ambizioso, prodotto da quel Jim Abiss famoso per aver lavorato con Adele, Florence + The Machine e gli Arctic Monkeys, che mette insieme tante influenze quante ne lascia supporre la definizione che il quartetto dà  della propria musica: nientedimeno che dark melodic indie techno, un’etichetta pomposa che lascia disorientati e straniti. Uno smarrimento che scompare solo in parte ascoltando le dieci tracce. I riff veloci tipo Foals di “Cassius” o “Balloon” che ornano la nuova versione di “Follow Baby” si mescolano a un’atmosfera pop-rock condita con piccole dosi di romanticismo (“Sugarstone”, “Float Forever”), ravvivata da ritmi ballabili fatti apposta per essere remixati e dominare i dancefloor estivi (“Toxic”, una “Delicious”solo omonima della cover dei Binary Finary pubblicata in passato) insaporita da pretese sexy ma senza esagerare. Un esordio che sembra essere stato attentamente disegnato a tavolino, dopo un’accurata analisi sul tipo di pubblico che si vuole raggiungere e conquistare, monopolizzandone autoradio e lettori mp3. Un album radiofonico a presa rapida, creato per essere fischiettato. Orecchiabile, confidenziale, modaiolo con un po’ di pepe, spavaldo e malizioso quanto basta ma non così tanto da spaventare, riprende e attualizza parti del sound Madchester senza osare troppo con la psichedelica edulcorata di “California Daze” (già  sentita nell’EP “Delicious”). Almeno un paio di momenti superiori agli altri (una “Lovesick” che strizza l’occhio ai Cure e l’inno adolescenzial-generazionale “Higher Than The Sun”) annullati da altrettanti meno convincenti (“Wraith”, “Waste Of Paint”).

Alla fine si ha la sensazione che con “In Love” i Peace sfornino il classico disco “da classifica”, non eccezionale nè originale ma con qualche spunto interessante, e anche che probabilmente finiranno (loro malgrado) per essere l’ennesima tigre di carta formato NME (che infatti li adora). La band del momento pronta per essere sbattuta in copertina con l’alto rischio di venir consumata in fretta, dimenticata ancor prima e sostituita all’arrivo del nuovo candidato al podio di gruppo indie dell’anno. Se poi i quattro avranno il destino fortunato di alcuni loro predecessori (e l’NME potrà  esultare perchè ha trovato un’altra gallina dalle uova d’oro) o condivideranno l’amaro e gramo fato di tanti altri sarà  solo il tempo a dirlo.