E’ strano vedere i Mudhoney vestiti eleganti come appaiono nelle foto promozionali di “Vanishing Point”, album numero nove di una lunga carriera. Forse perchè quando senti il loro nome il pensiero corre sempre ad altre immagini: quelle in bianco e nero degli anni d’oro di Seattle scattate da Charles Peterson, piene d’energia e ancora fresche anche se di tempo ne è passato. E te li immagini costantemente in jeans tra fiumi di birra e non in giacca, con un cappello e una cravatta, calici di vino in mano e Steve Turner che sfoggia un paio di baffi a manubrio che lo fanno somigliare a un professore di filosofia o a un nobile inglese d’altri tempi. Ma sarebbe ancor più strano se volessero restare giovani per forza, imprigionati nel passato e incapaci di progredire. E loro hanno sempre voluto guardare avanti, non indietro. Anche se il futuro è quello poco rassicurante descritto in “The Final Course”.

“Vanishing Point” è un ottimo modo per celebrare il venticinquesimo anniversario della Sub Pop e dei Mudhoney stessi, che sembrano più in forma che mai. Registrato agli Avast! Studios nell’arco di due weekend, è un disco che solo loro avrebbero potuto fare. Arrabbiato, crudo, onesto, sarcastico ma non crudele, con quelle armonie oblique costruite dalla batteria di Dan Peters, dal basso di Guy Maddison, dai licks furiosi della chitarra del Signor Turner e dalla voce tagliente di un Mark Arm che scrive testi ancor più pieni di humor nero del solito (come si capisce in “Sing This Song Of Joy”). Canzoni che hanno l’immediatezza di “Slipping Away” col suo “Baby Baby Baby Yeah, Ah Ah Ah Oh Oh Goddamn” o la potenza devastante di “The Only Son Of The Widow From Nain” e di “In This Rubber Tomb” in cui Mark sembra mettere in guardia contro i pericoli dello stare troppo comodi e sicuri, perchè un po’ di pericolo serve sempre nella vita. E poi prende in giro chi si atteggia (“Douchebags On Parade”), chi cerca di vivere della luce riflessa degli altri (“I Don’t Remember You”) e i critici che vorrebbe buttare fuori dal backstage in una “Chardonnay” dove urla I see through your charade / I Hate You Chardonnay fino a non avere più aria nei polmoni come se fosse il figlio di Iggy Pop (ah ma allora i vestiti, i calici, l’aria da signori, il vinello rosso erano solo uno scherzo!!). Ma sa anche essere dannatamente serio quando in una “What To Do With The Neutral” dal groove assassino se ne esce con un paio di righe che dovrebbero essere scritte sui muri: I will say no to nothing and yes to something but I have no idea what that something should be.

Meritano rispetto, i Mudhoney. Rispetto per quello che hanno fatto, per quello che fanno e per quello che faranno. Ma soprattutto meritano rispetto perchè sono riusciti a creare un album mettendo insieme la passione e il divertimento dei ragazzini e la confusione, la complessa ironia degli adulti. Di chi sa che la vita non è tutta da ridere ma che proprio per questo bisogna apprezzare ogni sorriso e riconoscere l’importanza delle piccole cose, come dice convinto Mark in “I Like It Small”.