Ciò che più mi perplime (nel senso più positivo che ci sia) di Kurt Vile è la sua capacità  di scrivere canzoni che fluttuerebbero per sempre senza stancar mai. Dico fluttuare perchè parliamo di pezzi che davvero danno la sensazione di esser “liquidi”: filano via lisci come un ruscelletto limpido e fresco che impedisce di staccar gli occhi (in questo caso le orecchie) da sè.
Per Kurt questo è il sesto album: segue il (giustamente) acclamato “Smoke Ring For My Halo” del 2011, e si preannuncia già  prima della sua uscita come il disco della (se ce ne fosse ancor bisogno) definitiva consacrazione del 33enne di Philadelphia.

Ebbene, sgombriamo il campo da ogni dubbio e da ogni indugio: se di consacrazione ha senso parlare per un genio della semplicità  complessa come Vile, parliamone apertamente. “Waking On A Pretty Daze” è un discone. A iniziare dal lungo incipit della quasi-titletrack, manifesto di quella capacità  di rendere nove minuti e mezzo un continuo fluttuare di arpeggi e assoli psichedelici di cui si parlava prima. A riprova di ciò, chi può dirsi anche solo minimamente stanco al termine di “A Girl Called Alex”, traccia numero 4 ma con già  mezz’ora di musica alle spalle? L’attitudine dreamy tanto in voga negli ultimi anni viene declinata alla perfezione in ambito squisitamente pop(l’inizio Fab Four di “Never Run Away”)-rock. Ma del resto in questo il buon Kurt è un maestro: già  “SRFMH” faceva di certa dimensione onirica e ipnotica la sua cifra; qui però l’ennesimo salto di qualità  è udibilissimo, permettendo al risultato complessivo di guadagnare in varietà  e -molto molto ma molto subdola- catchyness.
Per la sua patina psichedelica e dinoccolatamente freak, ” Wakin’ On A Pretty Daze” può esser anche considerato come un lavoro lo-fi. Ma se di questo si tratta, è un lo-fi che grazie al Cielo non nasconde nulla dei fraseggi armonici disegnati dalla chitarra del Nostro, che nei sette e passa minuti di “Was All Talk” trova il modo di infilarci anche certi Marrinismi bucolici. Le sorprese maggiori sono riservate verso la fine, con la virata heavy (nei limiti del possibile) di “Snowflakes Are Dancing” e l’acidità  sottotraccia (sono proprio synth d’annata quelli, meandri Pink Floyd e, se vogliamo, Air tanto per intenderci) di “Air Bud”.

Kurt Vile si pone ormai come uno dei più credibili songwriter americani, insinuandosi nel solco della tradizione di stampo (come ha efficacemente rilevato il Guardian) Reediano (la conclusiva passeggiata al parco con coretti moonlight “Goldtone”) per quanto concerne l’enunciazione lirica e Youngiano sotto il profilo dell’assolistica (“Too Hard”) e, aggiungerei io, del fraseggio elettrico (“Shame Chamber”).

Too much love for Kurt Vile WON’T kill you.

Photo Credit: Adam Wallacavage