Bei tempi quelli dei La’s e degli Stone Roses. Degli Happy Mondays e dei Charlantans. Dei Suede e dei Pulp. Della Madchester drogata e del Britpop spaccone. Della faida tra Oasis e Blur che di fatto mise i paletti della nascita e della fine del Britpop. Bei tempi dicevamo, grandi gruppi. Ma se guardassimo dallo specchietto retrovisore vedremmo che ci siamo lasciati qualcosa, qualcuno, alle nostre spalle. Sì, perchè nel 1987, prima di tutto e tutti vedeva la luce “Sonic Flower Groove” e i Primal Scream di Bobby Gillespie cominciavano a muovere i loro primi passi, portando in dono quello che sarebbe stato il suono che avrebbe di fatto contraddistinto gran parte dei ’90, e che avrebbe quindi influenzato gran parte dei gruppi sopracitati.
Parlare dei Primal Scream come degli eterni dimenticati dal giro dei gruppi Brit che conta(va)no, forse è un po’ troppo, fatto sta però che gli scozzesi hanno sempre preferito muoverei nella penombra, scansandosi dalla luce dei riflettori e cercando di mantenere un profilo basso.

Eccoli quindi oggi, a ventisei anni dall’esordio sopracitato, ventidue dal loro capolavoro “Screamadelica”, a cinque dall’ultimo “Beautiful Future”, tornare con un disco che far passare in osservato sarebbe un’eresia. Con “More Light” i Primal Scream tornano in pista e lo fanno con un disco arrogante e ambizioso al punto giusto. Tredici tracce che shakerano gli oltre vent’anni di gloriosa carriera, per lo più contrassegnati da una continua ricerca di un suono fresco e proiettato all’avanti ma attendo a mantenere un punto di contatto con il passato. Ci riuscirono con “XTRMNTR” e in parte con l’ultimo “Beautiful Future”, mentre mancarono l’obiettivo con “Riot City Blues” e ci andarono vicini con “Vanishing Point”. E con “More Light”? Beh, non è facile da dirsi, soprattutto per il fatto che il nuovo lavoro di Gillespie&co. è ciò che può esserci di più distante da quelle che sono le esigenze di un pubblico ormai lasciatosi andare all’ascolto facile e fugace. E in questo senso può essere spiegata la traccia di apertura, “2013”, che con i suoi nove minuti e un avvio che lascia di stucco (la costante presenza di fiati non se l’aspettava nessuno, o quasi) comincia subito la selezione degli ascoltatori pazienti e ‘meticolosi’. E chi avrà  deciso di abbandonare la nave dopo gli altrettanti sette minuti della sussurrata “River of Pain”, beh lasciatemelo dire, non c’ha capito proprio un bel niente e soprattutto non sa cosa di li a poco si sarebbe perso. “Culturecide” di Bowiana memoria e la possente “Hit Void” accendono la lunga miccia, che attraversando la fluttuante “Tenement Kid” e il baldanzoso jazz-soul di “Goodbye Johnny” si avvicina al grande botto con il blues di “Eliminator Blues” e l’anfetaminicità  di “Turn Each Other Inside Out”. La ballata “Walking With The Beast” ci concede un momento di relax prima dell’esplosione definitiva che culmina con l’inno in cui si respira aria di Stones, il singolo “It’s Alright, It’s OK”.

L’esplosione, un tripudio di colori liquefatti o meglio ‘screamadelici’, dimostra come Bobby non abbia ancora dovuto fare i conti con alcuna crisi di mezza età , e che arrivato a quasi trent’anni di carriera è ancora in grado di partorire album d’avanguardia, rischiosi, in grado di spettinare qualsiasi gruppetto di bulletti albionici che rubando ora dai 60’s ora dai 90’s del Britpop che fu c’hanno costruito, e ci costruiranno, intere carriere. Dell’arrivismo possiamo farne anche a meno. Grazie di avercelo ricordato Bobby.