I Boards Of Canada sono fra coloro che fanno della musica elettronica un’esperienza palindroma. Si potrebbe rovesciarla, invertirla, ridurla a un segmento senza capo nè coda ma il senso estetico rimarrebbe quasi del tutto intatto, puro. L’apparente mancanza di un climax specifico, infatti, contribuisce a distinguere l’elettronica come esperienza intellettuale dall’elettronica come medium atto alla soddisfazione di un mero atto ginnico. Non c’è verso o direzione nei Pan Sonic, non ce ne sono di particolarmente distinguibili nelle variazioni sonore di Loscil o nelle estasi enfatiche di Fennesz, Alva Noto, di Frank Bretschneider, Richard Chartier, di Janek Shaefer o persino nel glitch caotico di Yu Miyashita. Poi, invece, ci sono gli Aes Dana.
C’è un suono e tanto basta a fornire immagini forti, persino apocalittiche come in questo “Tomorrow’s Harvest” che è al contempo colto epigono e nemesi della musica elettronica degli albori.

Se nell’immagine di copertina vedete lo skyline di San Francisco, guardate meglio. Nel corpo dei palazzi, dei grattacieli e nella Transamerica Pyramid c’è forma ma non sostanza: la città  è ormai altrove e a perdurare è la sua immagine e non il soggetto che rappresenta. Il messaggio vagamente nichilista dell’album ci riconsegna un duo Eoin ““ Sandison che non ha ancora smaltito la sbronza pessimista dell’ultimo “Campfire Headphase” risalente, ormai, a otto anni addietro. Un poco Kraftwerk, un poco Orbital di “In Sides”, “Tomorrow’s Harvest” è una matematica sentimentale malinconica; un coacervo di messaggi subliminali che, a partire dall’annuncio dell’imminente uscita dell’album attraverso un vinile contenente una serie di numeri lasciato in un negozio di dischi a Manhattan, trovano il loro habitat naturale in un contesto musicale a sua volta pieno di riferimenti e citazioni.

Ma a farla da padrone qui, ora, è la potenza visiva che risalta da tracce come “Cold Earth” o “Split Your Infinities”, in cui a un minimalismo musicale quasi ossessivo fa da contrappeso il colore ben poco sfumato di un panorama post-apocalittico di calma non solo apparente ma reale e tangibile. L’ambient techno degli esordi è del tutto svanito e al suo posto rimane una vaga idea di ritmo; la percussione non è un beat ma un’appendice dello stesso impianto armonico: si confonde con esso fino a divenire una cosa sola. Il tempo è rallentato e la cadenza che ne risulta è totalmente inestricabile dal resto della struttura. “Palace Posy” (l’anagramma di “apocalypse”, à§a va sans dire), “Nothing Is Real” o “Cold Earth” sono forse accenni d’eccezioni a questa regola a cui la musica di “Tomorrow’s Harvest” decide d’obbedire.
I riferimenti, i micro suoni e le aggiunte sottili sono innumerevoli come in “Split Your Infinities” e i suoi echi metallici in lontananza, soffusi, nascosti dietro una coltre di synth e bassi, quasi a fornire materiale per continue scoperte ascolto dopo ascolto.

Più in generale, parlare di una vera e propria evoluzione, in questo caso, è quanto mai improprio. I Boards Of Canada ripercorrono ““ in maniera del tutto dichiarata ““ quei percorsi estetici delle colonne sonore di pellicole di dubbia fantascienza di fine anni 70. Il risultato è, ovviamente, ottimo. Ma a che pro?

Senza voler citare Husserl, ma rifacendoci vagamente a esso, potremmo dire che l’operazione del duo scozzese è di rielaborazione attiva dell’estetica proto-elettronica di quella decade: una formulazione cosciente dei primi passi del genere e del suo legame con la celluloide. Il problema della critica musicale, invero, è che tali discorsi hanno furbescamente senso quando un album risulta, come in questo caso, intrigante, malinconico e, si perdoni l’ultimo aggettivo, bello. La rappresentazione è contenuto e atto, percezione delle peculiarità  sensibili dell’oggetto quando l’album incontra i gusti di chi scrive; è vile scopiazzatura e trovata promozionale quando un lavoro raggiunge il polo opposto del suo gusto.

In “Tomorrow’s Harvest” la verità  resta sospesa nel mezzo. Se da un lato lo sforzo creativo risulta avere successo nella fase di rielaborazione delle proprie influenze (lo Stefano Mainetti del divinamente pessimo “Zombi 3” del 1986 su tutti), dall’altro non c’è un reale sforzo d’inventiva nell’andare oltre la rielaborazione. I Boards Of Canada si sono fermati alla premessa senza mai preoccuparsi di andare oltre l’esposizione rischiando, ad esempio, come hanno fatto gli Orbital con pessime uscite come “The Altogether” e il famigerato “Blue Album”.

Da un punto di vista strettamente artistico, dunque, “Tomorrow’s Harvest” appaga e merita l’attenzione che, comunque, non gli sarà  negata. I contenuti fortemente distopici, l’eccellente lavoro di produzione e lo scenario meravigliosamente debitore a Philip K. Dick lo rendono di sicuro una delle migliori uscite dell’anno per quanto riguarda quella fascia di elettronica orgogliosamente palindroma, troppo minimalista per molti e troppo poco accattivante per pochi altri. Il problema è la quasi totale mancanza di coraggio nel valicare il fiume d’ovvio che inesorabile scorre tra l’ascoltatore e l’ora abbondante di musica, ma le cui influenze sono molteplici e quasi mai banali.

Viene da domandarsi se Sandison e Eoin si sentano appagati, se i Boards Of Canada terminino qui la loro corsa artistica o se nei prossimi album la ricerca diventerà  scoperta. “Tomorrow’s Harvest” è un lavoro da giudicare mediando l’enorme contraddizione che suscita: impersonale sotto il profilo artistico; eccellente sotto quello musicale e della fruizione estetica. Ibrido e affascinante come tutto ciò che sta nel mezzo, “Tomorrow’s Harvest” è un album già  sentito che così non ha mai suonato prima.