Erano tante le aspettative sul nuovo chiacchieratissimo film di Paolo Sorrentino talentuoso artista piuttosto che mero regista, qui alla prova più ambiziosa e pretenziosa in concorso al festival di Cannes. Questa volta torna dalla Croisette a mani vuote e nessuna menzione ma subito riscattato al botteghino in cui risulta il suo film più visto di sempre.

Difficile recensire un’opera (più che un film) così ridondante, ammaliante, pregna, mistica e per certi versi metafisica persino. Tanta (troppa?) roba sul fuoco, ma siamo dalle parti del grande Cinema quello con la C maiuscola, che s’intravede sin dalla prima inquadratura, introdotto dalle celebri carrellate tanto care e imprescindibili al regista napoletano.
Una Roma ricca eppure vuota, un vuoto che porta un assenza di senso, come pure i personaggi che si agitano dentro il suo ventre e faticano a trovare un senso nelle cose.
Un corpo martoriato eppure splendido quello della città  eterna, visto con uno sguardo famelico, impietoso eppure benevolo talvolta, dall’occhio ordinato e geometrico della cinepresa di Sorrentino, esaltato e corrotto dalla luce perfetta di Luca Bigazzi e sottolineato sontuosamente e drammaticamente dalle musiche di Lele Marchitelli.

Il personaggio di Jep Gambardella, il cui animo disincantato viene indelebilmente contaminato dalle molteplici tentazioni e la meraviglia della Capitale a cui spesso si affianca l’effimero, a cui è giunto presto dopo il precoce successo letterario giovanile, ed incarnato in maniera sublime da Tony Servillo, attore feticcio e superbe interprete della poetica sorrentiniana a cui l’autore partenopeo conferisce tutta la sua aura ironica e intellettuale e quel cinismo malinconico e letterario che gli appartengono.

Seguiamo le vicende anti-narrative e i pensieri di Jep Gambardella con la dolce e tremenda percezione che non si vada da nessuna parte, un affresco poetico e sinuoso del nulla, così come Flaubert fece con il suo romanzo più famoso, una dichiarazione d’intenti artistica precisa e sottovalutata.

Il film si muove all’interno di un contesto sociale attuale, tipicamente italiano e prettamente romano e tenta arditamente di fare un’analisi sul presente ma non si esaurisce in nessun modo in un resoconto realistico dei giorni nostri, ma un sottile sguardo sul decadimento volgare di una città  simbolo e forse anche di un Paese.
Tutti i personaggi si muovo in un tempo indefinito, quasi un contro-tempo, spesso notturno, e tutti scelgono di non vivere e di crogiolarsi nel senso indefinito di vacuità  tra cui splendide emergono le figure di Romano e Ramona (sfiziosa gioco di nomi) interpretati da un insolito e drammatico Carlo Verdone e una bravissima Sabrina Ferilli.

Il sentimento e la bellezza vanno cercati anche in coloro che nella vita di tutti i giorni ci fanno una certa impressione o addirittura repulsione, il cinema di Sorrentino (innamorato da sempre dei suoi personaggi) permette questo meraviglioso gioco, di amare anche chi normalmente non è amabile ed il film prova a fare esattamente questo, a cercare la bellezza dietro lo squallore, il patetico e anche una certa volgarità .

Arriviamo infine all’annosa questione del paragone con il maestro Fellini e il suo affresco di Roma in quel capolavoro eterno che è La dolce vita (omaggiata volutamente con il cameo di Fanny Ardant in una scena in Via Veneto): il lungometraggio di Sorrentino non è un tentativo emulativo di richiamare quelle vette artistiche ma perlopiù una tensione ad ambire quelle cime pur essendo organicamente qualcosa di ben diverso e nonostante si muova negli stessi scenari e si cali nelle simili atmosfere decadenti dilettandosi in molte citazioni. Ambizioni legittime per ogni regista cresciuto a pane e immagini e di conseguenza non una colpa. Qui non trattiamo certo di un capolavoro del cinema mondiale, ma lasciatemi consentire di affermarlo: che grande bellezza, signori!