E’ vero che Alex Turner affronta palco e fotografi vestito come un giovane John Lennon in visita domenicale alla mamma Julia. Ed è vero che Matt Helders se adorna la propria batteria di un colossale 0114. Nel mezzo però, tra il look di Turner ed il prefisso telefonico di Sheffield, oggi campeggiano due macroscopiche lettere: “AM”. Ci si può certo compiacere per l’affettuoso richiamo alla terra d’origine, la stessa che d’altro canto li ha incoronati non ancora trentenni a simbolo nazionale sul palco della cerimonia olimpica, ma non si può negare che “AM” incide una svolta stilistica nella storia della band inglese. Una svolta che sin dal titolo (per esplicita ammissione del frontman inspirato dal Velvet Underground ) richiama la casa putativa americana ed i magazine d’oltreoceano più che una gita a Blackpool ed un trafiletto sullo Yorkshire Post.

“AM” è un disco dalle sonorità  spiccatamente rock, sinuoso, intriso a tratti di scintillante romanticismo. Perfetta l’apertura con il beat di “Do I wanna know” ed un languido Turner che canta Baby we both know that the nights were mainly made for saying things that you can’t say tomorrow day, riconciliata idealmente nel finale di “I Wanna Be Yours”.
Non trascurabili i camei di Josh Homme in “Knee Socks” e “One for the Road”, Bill Ryder-Jones in Fireside e Pete Thomas in una “Mad Sounds” che riecheggia Lou Reed. Ideale spartiacque -musicale e metaforico- dell’album è la bellissima “No.1 Parthy Anthem” che questa volta non trascura di ricordarci le radici della band con il consolidato e rassicurante piglio cantautorale già  esibito da Turner nel suo lavoro da solista per il delizioso EP “Submarine”.

“AM” è la sintesi di un morfismo che ha probabilmente consentito agli Arctic Monkeys di galleggiare nei pericolosi pantani del brit pop traghettando dall’adolescenza alla (quasi) maturità  senza grossi intoppi. E dovremmo forse leggere quello 0114 per quello che è: un prefisso, una provenienza. Perchè l’approdo è oggi più ambizioso, più sfrontato e decisamente più interessante di quanto potessimo aspettarci.

Photo credit: Zackery Micheal