C’è un modo poco frequentato di abitare la scena musicale, ed è quello a cui i Mazzy Star si dimostrano fedeli con il loro ultimo album, “Seasons of your day”: in tono minore, di annotazione a margine, ma non irrilevante. Così, si può essere capaci di ricomparire, senza essere davvero mai scomparsi, o meglio, senza essersi mai sciolti.

Dopo il terzo album “Among my Swan”, un giorno dell’anno 1996 o giù di lì, quando alcune fra noi giocavano con le Barbie ““ fra cui la sottoscritta ““ e altri stavano ancora rielaborando il lutto per la morte di Cobain (guys, get over it), Hope Sandoval e David Roback devono aver deciso che valeva la pena pubblicare un disco solo se si aveva davvero qualcosa da dire. E che quindi non lo avrebbero fatto per un tempo indeterminato. Nessun clamore, nessuna scissione spettacolare correlata di libro official-unofficial sui retroscena che nessuno avrebbe voluto conoscere, chè del resto è roba da grandi rockstars, mica da chi, come loro, è refrattario alle interviste e nell’ombra ci sta benissimo e vuole rimanerci.
Il bilancio era tutto sommato positivo: qualche album impeccabile, una o due “hit sotterranee”, fra cui “Into Dust”, affiorata in superficie all’attenzione del grande pubblico per uso e abuso di telefilm e pubblicità  (“The O.C.”, “House”, e addirittura il videogame “Gears of War”). Mitizzati come influenza quasi canonica del dream-pop, riconoscibili in contro-luce nel DNA musicale di giovani eredi come i Widowspeak. Pareva comunque un episodio concluso, secondario quanto prezioso, di una certa storia musicale (vedi alla voce: Neutral Milk Hotel, altro inaspettato ritorno 2013). Mentre ci convincevamo di questo, i due hanno sperimentato qualche progetto individuale, tuttavia continuando occasionalmente a suonare, a comporre insieme; si può dire che “Seasons of your day” ““ in cui confluiscono le tracce su cui lavoravano fuori di ogni sospetto ““ abbia visto la luce dopo 17 anni di gestazione.

Il risultato non è soltanto un album di ritorno, ma un album sul ritorno, sul rituale (banale?) che lo precede o, al contrario, lo rende impossibile: mancarsi, sapere di mancarsi, rimanere immobili per orgoglio, perchè lo sai che “odio i copia-incolla, santo cielo”, canta la Sandoval; e in fondo capire che certe distanze sono percorribili all’indietro solo se sono geografiche, talvolta nemmeno in quel caso. I’m going back to California, it’s so far away, con la troppo facile tentazione di leggervi un riferimento agli esordi, per la band nata a Pasadena. Ora, i ritorni ““ che siano sentimentali, musicali, di costume ““ sono materia controversa. La direzione è contraria a procedere, il timore sempre unico: qualcosa si è rotto, non sarà  più lo stesso.
Eppure i Mazzy Star superano la prova del tempo incorrotti, immuni a qualsiasi cambiamento climatico-musicale. Non ammiccano a nuove tendenze, perchè non può tornare di moda chi una moda non lo è mai stato. Non tentano stupori. è ancora tutto lì dove lo si era lasciato (dimenticato?). La voce languida ed eterea della Sandoval, 47 anni solo all’anagrafe, una Nico eternamente adolescente che con distratta e strascicata indolenza ferma il tempo e lo spazio, senza avere l’aria di accorgersene, quasi fosse capitata davanti al microfono per caso e ci si concedesse con qualche reticenza. E poi, la chitarra cangiante di Roback: da “Sparrow”, debitrice al giro leggero e pizzicato di Leonard Cohen in “Chelsea Hotel #2” fino a “Lay Myself Down”, per la quale non è un’attribuzione indebita chiamare in causa il blues effettato del Jimmy Page più tardo di “When The Levee Breaks”, con buona pace dei cultori del genere. Elementi intrecciati in un equilibrio matematico e stabile, in cui l’unica paradossale mancanza è quella di imperfezioni o sbavature che rendano i due meno distanti, più di questo mondo, fatti di carne.

“Seasons of your day” è ritrovare un’audio-cassetta in una cantina polverosa ““ che è il luogo migliore delle archeologie sentimentali ““ fra una preistorica console Nintendo con Super Mario, l’annuario della classe 1994 e la foto impettita prima del ballo scolastico, con lei che ti piaceva tanto. E insieme, ritrovare anche il dubbio che alcuni ritorni siano non tanto salvifici quanto necessari.