Il 2013 è stato un anno controverso per quanto riguarda il pop da classifica al femminile; numeri alla mano, le vendite hanno registrato dei crolli notevoli, con dei risultati insoddisfacenti che sembrerebbero riflettersi, se non esser causati direttamente da consistenti cali d’ispirazione. è stato un anno di promesse non mantenute, di mutazioni discografiche millantate in mesi di campagne mediatiche altisonanti e mai incassate. La “svolta matura” del pop mainstream, parola d’ordine sulla bocca di tutti a inizio anno, risulta alle porte del nuovo anno una mossa impalpabile che porta via anche un mezzo sorriso se si pensa a personaggi, come Lady Gaga, che persistono a decantare la propria arte, continuando però a rifilare la stessa raccolta di ritornelli noiosetti sempre uguali. L’ingresso in classifica di piccoli fenomeni spesso estemporanei come Lorde apre il tradizionale dibattito se realmente il gusto di fasce meno raffinate di pubblico pagante possa muoversi verso prodotti, magari neanche particolarmente rivoluzionari, ma quantomeno vagamente dissimili da ciò che ormai da anni detta le vendite del mercato discografico.

è in questo scenario postbellico che arriva, dal nulla, Beyoncè. Un nulla simbolico, se consideriamo lo show al Super Bowl, i contratti con Pepsi e H&M, un tour internazionale e una gravidanza mediatica, tutti nell’anno appena concluso. Reduce da un ultimo disco che già  la poneva un gradino più in alto rispetto al marasma pop, e valorizzata da una mossa di marketing su cui tutto è gia stato detto e analizzato e un progetto ben strutturato anche sul piano visivo (alcuni clip molto interessanti, altri limitati ad esaltarne la bellezza, che insomma, che gli vuoi dì), è proprio nel contesto di massima sorpresa, pomposità  e potenza mediatica, seppur dissimulata dalla mancanza di un countdown, che Beyoncè propone il suo disco più sperimentale e audace. Persistono le grandi ballad e i singoloni r’n’b, sia mai, ma quasi sempre condite da un inedito gusto di ricerca sonora.

La nuova Beyoncè, salutati parzialmente i fasti del revival Motown di “4”, punta infatti a una produzione che ammicca al trip-hop (“Haunted”), a certa bass-music condita di soul (“Partition”, “No Angel” scritta e prodotta da Caroline Polachek dei Chairlift) e alla trap. è interessante sottolineare come molte popstar abbiamo provato a sporcarsi recentemente con questo genere (Lady Gaga, Katy Perry) con risultati disastrosi; Ms Carter, neanche a dirlo, riprende il tema trap in basi che, ovviamente, co-produce e che vanno a comporre le migliori proposte dell’intera raccolta (“Drunk in Love” in coppia col marito, la Boldriniana “***Flawless” con tanto di manifesto femminista della nigeriana Chimamanda Ngozi Adiche). La trionfale chiusura è affidata alle ballad, su cui Beyoncè potrebbe tenere un corso di laurea: la drammaticona “Heaven” e la più ritmata “Blue”, malgrado un paio di scelte che sfociano nel trash andante (un’Ave Maria in spagnolo e qualche chiacchiera della figlia Blue Ivy, creditata nel brano) non sfigurano nell’insieme e finiscono per far simpatia.

Non è quindi solo alle scelte di marketing che il personaggio/prodotto Beyoncè deve dire grazie per esser riuscito a spodestare la corposa concorrenza, ma soprattutto a una pubblicazione che nella sua opulenza e autocelebrazione ha avuto l’ottima capacità  di non bruciarsi la possibilità  di primeggiare solo nelle apparenze di mercato, ma anche in concrete scelte musicali.