Suzanne Vega nasce a 11 luglio 1959, Santa Monica, CA. Dopo il divorzio la madre risposò il romanziere Ed Vega trasferendosi, con un inedito coast to coast, a Manhattan. E’ qui, a Spanish Harlem, che Suzanne Vega scopre di non essere la figlia naturale di quello che pensava essere suo padre, e quindi di non essere per metà  portoricana. Contemporaneamente, a soli 11 anni, scopre anche la chitarra, traendo ispirazione da artisti come Bob Dylan, Leonard Cohen, Joan Baez, Pete Seeger e Judy Collins. Studia Arte e Spettacolo, Danza, si iscrive al Barnard College, bazzica tra il West Side e la Columbia University, tra East Side ed il Greenwich Village. Poi, nel 1979, ad un concerto di Lou Reed ha la folgorazione e capisce che la sua strada è la musica a pieno tondo.
L’inizio non è facile, tre anni di rifiuti malgrado l’impegno dei suoi manager Ron Fierstein e Steve Addabbo, ma, finalmente, al terzo tentativo la A & M la mette sotto contratto e, con la co-produzione di Lenny Kaye, inizia la carriera professionistica.

Testi forti ed impegnati, suoni folk mescolati a bossa-nova e jazz, un marchio di fabbrica che ne fa ospite fissa nella carovana organizzata da Sara McLachlan, Lilith Fair, assieme ad altre cantanti di assoluto livello come Emmylou Harris e Bonnie Raitt. Dopo l’omonimo album d’esordio con l’ottimo “Marlene On The Wall”, il botto mondiale con “Solitude Standing” e i singles “Luka” e “Tom’s diner”. Segue un complicato matrimonio con Mitchell Froom e quindi un periodo artisticamente appannato. Per la catarsi bisogna attendere il 2009 ed il nuovo sodalizio con la Blue Note Records da cui nasce il suggestivo “Beauty & Crime”, denso di piccole storie su New York con le solite parentesi autobiografiche. Dobbiamo aspettare ancora qualche anno per riassaporare le doti di chi ha aperto la via del song-writing d’autore ad emule come Tori Amos a Edie Brickell, da Sheryl Crow ad Alanis Morissette.

“Crack in the wall” è una ventata di freschezza, nuvole e sole, cascate d’acqua e vento che accarezza, archi e chitarra impreziosiscono la trama dando un assaggio della nuova Vega, una ricchezza di suoni cui non eravamo abituati. “Fool’s compliant” potrebbe appartenere tranquillamente ai primi album della song-writer, quelli del periodo d’oro, l’attacco di batteria introduce una voce d’annata, la chitarra è presente mentre la singer ci racconta dell’egoismo ed egocentrismo dell’odiata Regina di Denari. Splendido andante ritmico in “I never wear white”, una progressione trascinante di battute lontana da ogni intimismo, rulli di pelli percosse scrivono righe di poesia con un testo meraviglioso a tinte scure. Il basso di Tony Levin si intreccia con la chitarra di Larry Campbell costruendo un arcobaleno di note su cui la Vega scoppietta di fulgida interpretazione. “Portrait of the Knight of Wands” è una malinconica, ammaliante ballata, delicati arpeggi acustici sono il tappeto per la dolcissima voce di Suzanne. Rientriamo nella tradizione dei suoi brani più caldi ed affascinanti, “an introverted spectacle in the flowers on the rocks” fa cadere come perla poetica cui non siamo più abituati.

In “Don’t Uncork What You Can’t Contain” troviamo anche un sample da “Candy Shop” di 50 Cent, la conferma della poliedricità  dell’artista. Anche questo è un brano ritmato, corde e fiati si fondono con la batteria colorando di luce un brano denso di frasi come “As the demons flew and the shadows grew This song went around her brain” dove ritroviamo il suo recente amore per Macklemore ed il suo “The Thrift Shop”. “Jacob and the Angel” è decisamente fuorviante, battiti insistiti di mano sono la galleria in cui si combatte l’eterna lotta fra il bene ed il male, Angel or demon?, Are you friend or are you foe?, non c’è risposta, ma c’è tanta roba in questo brano di battiti e note luminescenti. Rullanti imperiosi aprono “Silver Bridge”, corde stoppate, un levare bellissimo, trilli di piatti e plettrate solari lasciano che la Vega ci racconti di lei e di noi chi non ha mai avuto All those nights when you can’t sleep? Song of the stoic apre con drammatiche armonie di banjo e mandolino, un testo che probabilmente è in parte tratto dalle sue esperienze, l’autobiografia è sempre stata presente nei suoi album d’altronde. La voce di Suzanne è come al solito grande, infinita protagonista, la trama musicale creata dai suoi musicisti è sontuosa e conferisce toni ancestrali e magici. “Laying On of Hands / Stoic 2” la potremmo definire una ballad veloce, What I often wonder is how she kept from hearing love’s demands, riff di chitarra incidono nei momenti di climax del pezzo, un omaggio a Madre Teresa testimone della infinita sensibilità  di un’artista che non finisce di stupire. Ascoltare questo pezzo ti tiene incollato a seguirne l’andamento, dal piano al veloce la singer si muove in assoluta padronanza, non ha incertezze nè dubbi. La musica che le scorre attorno è ricca di toni e sfumature, chitarra sempre ben presente con echi e corde tirate quando serve. “Horizon (There Is a Road)” che chiude l’album intreccia la storia raccontata dalla vocalist con una trama musicale dove troviamo assoli di tromba che vanno a cadere in maniera perfetta nel corridoio di corde e battiti ritmici

Molti dei miei vecchi dischi, soprattutto il secondo, parlavano dell’essere solitari. Quest’album racchiude un senso di connettività , c’è uno spirito diverso dichiara la Vega. Qui sta tutto il nuovo album, i testi di questa emula di Leonard Cohen sono superlative come sempre, ma perde la tristezza e la malinconia del passato. La “Luka” delle tristi esperienze da bambina ha lasciato il posto ad una nuova Luka, stavolta adulta che ha fatto pace con i suoi demoni. Il risultato è un album splendido, se la voce di questa folk-singer è sempre la protagonista indiscussa, il gruppo di grandi musicisti ingaggiati ha aggiunto una trama musicale piena di note e sfaccettature, la varietà  degli strumenti non è rovinata da nessun solista e non intacca il prodotto di cui la Vega resta protagonista indiscussa, ma va ad addizionare un valore aggiunto di indiscutibile pregio. Le varie chitarre si inseriscono perfettamente nella ritmica dei bassi e batteria ed anche le incursioni di strumenti anomali come banjo e mandolino sono schegge di pura magia. Siamo di fronte ad un cd di assoluto valore, compatto nel suo concept e di una solidità  con pochi eguali, se non fosse un genere poco avvezzo alle grandi masse si candiderebbe tranquillamente tra i migliori 10 album dell’anno.