I Temples ovvero la nuova, l’ennesima speranza del pop-rock psichedelico britannico. Nei due anni che hanno preceduto l’attesissima pubblicazione del loro disco d’esordio “Sun Structures” di questi quattro ragazzi di Kettering (il bassista Thomas Edison Warmsley, il batterista Sam Toms, il chitarrista e tastierista Adam Smith e il riccioluto frontman e chitarrista James Edward Bagshaw, sulla cui somiglianza con Marc Bolan sono stati spesi fiumi di inchiostro digitale) hanno parlato un po’ tutti. Dal solito NME al ben più sobrio The Guardian. Elogi sono arrivati anche da fan d’eccezione, come Noel Gallagher e Johnny Marr.

Solo un gruppo di raccomandati destinati a vita breve? No, stavolta no. I complimenti ricevuti i Temples li meritano (e Johnny Marr dimostra il solito buon gusto in fatto di scelte). La loro è una musica briosa, chiaramente ispirata ai primi anni settanta e alla psichedelia anni sessanta più pop e colorata, insaporita dalle immancabili influenze orientaleggianti e da armonie beatlesiane. Li hanno paragonati, per tornare ai giorni nostri, ai primi Tame Impala (che però osano di più) e ai Toy (che invece sono ben più dark) e in effetti il quartetto ha i numeri per ritagliarsi uno suo spazio nella parte più orecchiabile dell’universo psych.

Singoli ambiziosi dall’anima pop, impreziositi da arrangiamenti ben più sofisticati di quanto si sente di solito (“Shelter Song”, “Mesmerise”, “Colours To Life”), una “Keep In The Dark che gioca bonaria e giuliva con ritmi alla T-Rex, brani che sembrano scritti da un cantante folk che imbraccia la chitarra dopo aver preso un’abbondante dose di acido (“Fragment’s Light”). Un lato più romantico, non noioso nè scontato (“The Guesser”, “Test Of Time”, la malinconica “Move With The Season”), uno più sperimentale (“Sun Structures”, “Sand Dance”, “The Golden Throne”). E “A Question Isn’t Answered”, che li mette insieme entrambi senza rinunciare alla melodia.

“Sun Structures” è come un aperitivo a bassa gradazione alcolica: disseta, dà  un po’ alla testa, stimola l’appetito e prepara a lunghe serate in una buffa dimensione parallela dove il calendario è rimasto fermo da qualche parte tra il 1965 e il 1971, i capelli medio lunghi sono de rigueur come i pantaloni imprescindibilmente a zampa, imperano le lava lamp e curiose camicie a fantasie floreali. Tutto già  visto e sentito of course, ma riproposto con l’intraprendenza e la carica vitale di talentuosi ventenni che se avessero una macchina del tempo indietro ci tornerebbero di corsa, senza fermarsi nemmeno un minuto a pensarci. Retrò e tremendamente orgogliosi di esserlo, confezionano un esordio interessante che ha qualcosa da dire sia a chi è perennemente a caccia di melodiche evasioni sia a chi ama godersi un disco andando oltre la superficie scintillante e glitterata.

Photo Credit: Matt Clarke