Io davvero non riesco a capire come questi tre possano essere, insomma… così. Voglio dire, guardiamoli un attimo, ascoltiamoli un attimo. Sono tizi (con tutto il rispetto e l’ammirazione possibili) strani, sinistri, grotteschi. E così è sempre stato ciò che hanno prodotto.

I Liars sono una di quelle band che o le ami alla follia (e allora l’etnocentrismo musicale ti inghiotte) o le detesti con tutte le orecchie. C’era un tempo in cui non li capivo (ammesso che ora li capisca…), in cui non riuscivo ad apprezzarli. Poi magari capita che fai qualche sogno orrorifico, ti svegli in preda all’ansia, ti sciacqui la faccia, fai qualcosa, cammini, corri, balli, urli. Ecco, è così che la loro musica funziona, bene o male. Terrore, tensione, qualche molto sinistra melodia, e ultimamente qualche suola consumata in più. Tanto sudore, sempre. Sia che si tratti di emulare i Gang of Four (“They Threw Us All…”), disquisire di streghe (“They Were Wrong…”), percuotere tamburi (“Drum’s Not Dead”), fuggire dai propri demoni (“WIXIW”), osservarli passarti accanto, illuminati dalla palla stroboscopica durante un rave – eccoci qui, “Mess”.

Dicevamo tipi strambi e grotteschi. Prendiamo “Mask Maker”. Take my pants off / Use my socks / Smell my socks / Eat my face off: sono i primi versi, imperativi robotici ascoltando i quali francamente non riesco a non lasciarmi scappare una sonora risata. Qualche minuto dopo si sente non so bene cosa, se colpi di tosse o una risata catarrosa, versi di scimmie. Il tutto in un pandemonio electro-rave in cui il marchio Liars (quella tensione tragicomica per cui tu sogghigni tra il divertito e il costernato mentre loro ti scrutano torvi) ce lo senti immediatamente. I tre smanettano così con i sintetizzatori per tutto il disco, con un ritmo altissimo nella prima metà  della scaletta (galeotta fu “Brats”), omaggiano i loro-maestà  Kraftwerk (diciamo circa-Tour de France ?) (“Dress Walker”), si avventurano in lande kraut-ambient. Eppure l’attitudine è sempre punk (“Pro Anti Anti”, il singolo “Mess On A Mission”). Angus Andrew è lo sciamano di sempre (la danza dei fantasmi “Boyzone”), biascica robe incomprensibili (“Can’t Hear Well”, insieme minacciosa e riconciliante), ritorna sull’annosa questione cuore vs mente (Don’t ask me why the people / Tell me why / Why don’t you listen to your heart? , da “Vox Tuned D.E.D.”), modula le sue litanie su binari più blandi e addirittura quasi riflessivi (la finale “Left Speaker Blown” ).

Inutile dirlo, ma giusto per essere chiari: come tutti gli album dei Liars, anche “Mess” necessita di un congruo numero di ascolti per farcisi un’idea. Difficile dire se questa sia la loro incarnazione definitiva (ne dubito fortemente); ciò che conta è che oh, c’è poco da fare: “Mess” è l’ennesima allucinazione sonora forgiata con l’ennesimo nuovo set di giocattoli da questi pittoreschi nerd cazzoni che, ovunque si applichino, riescono con incredibile naturalezza e sincerità .