Quando nel 2012 mi capitò di vedere il video di “Werkin’ Girls” successe che 1) restai letteralmente incollata allo schermo 2) girai il video a terzi e 3) iniziai a chiedermi chi fosse la ragazza capace cantare/rappare in quel modo senza nemmeno mostrarsi accaldata. Mi era piaciuto il video, girato sotto luci neon tremolanti, in un sotterraneo, con barboncini, bimbe sorridenti e squadroni mascherati a creare la giusta dose di tensione/angoscia; e mi era piaciuto il pezzo, tenuto interamente in piedi da Angel Haze, e da una base a ritmo marziale, scarna ed efficacissima.

Oggi, due anni dopo, all’alba del 2014, vedo il video di “Battle Cry” e finisco a chiedermi se sto vedendo un remake brutto e tragico della sigla di “True Blood” e che fine ha fatto la ragazza del sotterraneo. Il video è talmente didascalico (e brandizzato) da risultare stucchevole se non addirittura kitsch. Ma al di là  del video ““ che di video buoni ce ne saranno quanti? Ecco – qui c’è dell’altro. In “Dirty Gold” è successo, o NON è successo qualcosa. La Magia Discografica non ha funzionato a dovere (ogni volta che assisto a dinamiche sospette nell’evoluzione di un musicista mi viene in mente la puntata dei Simpsons in cui Bart, Milhaus e soci mettono su una boy band, vengono investiti dalla Magia Discografica offerta dal produttore, e prendono a creare musica teoricamente favolosa e super spendibile – ma che in realtà  contiene messaggi militari subliminali). Quindi, dicevo, la Magia non ha funzionato e l’album è partito subito male per via di quello che potremmo chiamare l’AngeLeak.

E’ stato quando la rapper di Detroit ha messo in atto una sorta di hackeraggio di se stessa, sbottando su twitter e dichiarandosi stufa di aspettare. In un lampo ha quindi divulgato l’album motu proprio, prima della sua uscita ufficiale, mettendolo in streaming su SoundClound. Risultato: streaming immediatamente scomparso, album lanciato nella fretta generale, malumore, caos. Il pasticcio AngeLeak però non è l’unico problema. Perchè poi c’è l’album.
Volessimo partire dalla cover sarebbe un’ottima metafora. Perchè la sensazione a monte è proprio quella di un rivestimento pesante e fuori fuoco, imputabile in parte a postproduzione e arrangiamenti, in parte, forse, a qualcosa che assomiglia ad un desiderio di bruciare le tappe. In “Dirty Gold” sembra mancare una centratura. Angel Haze non riesce ad emergere, a definirsi, a diventare rilevante a sufficienza. Anche lì dove il canovaccio è buono (“A tribe called red”, “Deep Sea Diver”) l’evoluzione dei pezzi non è un’evoluzione, ma una linea dritta, piatta che finisce per annoiare e che spesso giustappone strofa e ritornello in modo meccanico e poco naturale. In questo modo la tensione che pur si sente nelle strofe viene vanificata, sacrificata per la ricerca di melodie che vorrebbero essere orecchiabili, ma che danno ben pochi appigli, e musicalmente offrono troppo poco. Se dovessi dire una cosa che funziona e risulta efficace nella musica di Angel Haze ““ al di là  della bravura – direi il suo tratto abrasivo. L’urgenza di raccontarsi. Si tratterebbe di qualcosa di cui tener conto, su cui costruire, da valorizzare, e sonorità  come quelle del primo EP lo facevano. In “Dirty Gold” invece la messa a punto del suono sembra stanca, non studiata sulle misure della cantante (tanto è vero che, per come me l’ero impressa, Angel Haze compare appena nella terza traccia). Alla fine Angel Haze, proprio come canta nella title track (don’t sell your soul, baby you are dirty gold) sembra nascosta, incappata in un packaging maldestro, finita dentro un’impiallacciatura al contrario, con tutto il potenziale finito sotto, sepolto da una struttura musicale troppo anonima.

D’altro canto è probabile che la stessa Angel Haze abbia le sue responsabilità . Ascoltando “Dirty Gold” viene il sospetto che quel desiderio di redenzione / rivalsa citato di frequente nei testi abbia preso il sopravvento. Le intenzioni che rivela l’album, quell’ampio respiro che cerca di avere, diventano se non devianti quantomeno precoci. Diventano un tentativo di trovare spazio prima ancora che identità .
L’aspirazione ad inserirsi su larga scala può essere legittima, se ci si dà  il tempo di sviluppare a dovere il prodotto da proporre. Che diano a questa ragazza un arrangiamento ad hoc, una Magia Discografica diversa; che tornino indietro, che ripartano da dove lei è partita; che non la seppelliscano dentro a nulla; che facciano decantare le urgenze, al di là  dei testi, anche musicalmente. Centrerà  la mia simpatia per le ragazze difficili, ma dopotutto Angel Haze ha ancora la mia fiducia. E per le melodie à  la Beyoncè c’è sempre tempo.

Cover Album

  • Website
Dirty Gold
[ Island/Republic – 2014]
Genere: hip-hop
Rating:
1. Sing About Me
2. Echelon (It’s My Way)
3. A Tribe Called Red
4. Deep Sea Diver
5. Black Synagogue
6. Angels & Airwaves
7. April’s Fool
8. White Lilies / White Lies
9. Battle Cry
10. Black Dahlia
11. Planes Fly
12. Dirty Gold