Ci deve essere qualcosa nella decadenza, nelle cose che invecchiano senza opporre resistenza, che ci attrae. Le cose che stanno per finire, ma non ancora, gli oggetti familiari che hanno conosciuto giorni migliori e adesso non sono nemmeno abbastanza buoni per diventare del modernariato da mercatino delle pulci: a commuoverci non è la vetrinetta di vostra nonna, a commuoverci è la zanzariera che cade a pezzi, la bambola sporca abbandonata in soffitta, è la tappezzeria macchiata. “This Low Commotion”, cantano qui. I detriti, tutto quello che non possiamo più riciclare: io non so Taylor Kirk cosa abbia visto mentre scriveva “Hot Dreams”, ma io ho ripensato alle volte in cui rimetto a posto gli scatoloni del garage e mi trovo con in mano un mucchio di cose polverose che farei meglio a buttare, ma conservo. è roba che non ha senso neppure per me, ma è il fascino della bellezza violata, del danno: facciamo una collezione di tazze senza manici, di radio senza pile. Come se la ruggine potesse dirci qualcosa di più. Queste cose hanno bisogno di una colonna sonora per diventare belle e la colonna sonora è “Hot dreams”.

Nel suo ultimo album, Taylor Kirk ci porta ancora lungo strade dove passano poche macchine ““ niente isole piene di sole ancora sconosciute, solo posti in cui non arrivi se non conosci qualcuno, se non stai cercando qualcosa ““ o te stesso. La prima volta che ho sentito “Hot dreams” ho pensato a una versione meno spaventosa di “Badlands” di Dirty Beaches, perchè siamo in prossimità  del capolavoro (fatemelo dire ancora una volta, capolavoro) di Alex Zhang Hungtai, almeno nelle atmosfere. Prendete “Run from me” e vi ritroverete nello stesso diner di “Lord knows better”, con la stessa cameriera stanca e sempre un oscuro Elvis in sotto fondo. Scappa via da me: una dichiarazione di amore e violenza. C’è un senso orrorifico trattenuto nella musica di Kirk, come se la violenza scorresse sotto pelle: non c’è bisogno che le ragazze scompaiano, che le Laura Palmer muoiano per rivelarci il lato oscuro dei posti dove non succede nulla. Il senso è: qualcosa è già  successo o sta per succedere, è questo che ci terrorizza e ci tiene qui, fermi. Un uomo alza le mani, ma ti voleva solo accarezzare: “Hot dreams” è quel momento di ambiguità , è uno degli uomini di True Detective che si mette a piangere, è lo sceriffo che fuma una sigaretta in “Ain’t them bodies saints”, è una scena di Come un tuono (prendete “The three sisters” e tornate a vivere in compagnia di Ryan Gosling).

Chiunque vi parlerà  della forza cinematografica dei Timber Timbre, di quanto sia haunting e affasciante la sua voce, perchè c’è poco da dire, è così. Sulla copertina del singolo di “Hot Dreams”, scrive il nome con il neon: quasi fin troppo didascalico ““ difetto che riconosco a tutto l’album, dato che si trova nella condizione di descrivere, più che di ricreare un mondo, ma sono anche correzioni di poco conto, alla fine, va bene così. Dopo l’ottimo “Creep On Creepin’ On” (2011), Kirk è qua con un album dall’estetica (im)perfetta, di chi si è innamorato di un mondo affascinante per le ragioni sbagliate.