Una pioggia torrenziale (che mi costringerà  fra l’altro a tenere i piedi inzuppati fino a notte fonda) mi scoraggia a vedere l’esibizione di John Grant (fonti attendibilissime mi parlano di un gran bel concerto)

HAIM
Autrici di uno dei migliori debutti del 2013, le sorelle Haim confermano quanto di buono intravisto sul web a proposito di performance live. Il loro set è un tripudio di indie-rock’n’roll, spacchi vertiginosi ma soprattutto di tanta tanta energia e di tanto ma tanto divertimento. Oh, e di facce – quelle di Este – che già  da sole basterebbero ad intrattenere per una buona ora. Le tre losangeline, accompagnate da un batterista, infiammano letteralmente una platea fradicia per il temporalaccio appena conclusosi mantenendo l’elettricità  ad alti livelli per tutta la setlist. Prova live insomma superata a voti anche più alti che su disco.

Stavolta è la pigrizia unita alla voglia di gustarmi i National da vicino che mi fa saltare i War On Drugs. Su Pitchfork si dovrebbero trovare dei video, in ogni caso.
(Alessandro “Diciaddùe” Schirano)

SLOWDIVE
La reunion degli shoegazer inglesi dopo vent’anni dallo scioglimento è sogno, miracolo e miraggio. Sogno perchè quando ne scoprii il mito “postumo”, ormai diversi anni fa, mai mi sarei aspettato di rivederli su un palco, men che meno nell’affollata cornice di un mega-festival come il Primavera Sound. Miracolo perchè il sound sublime ricreato da Neil Hailsted, Rachel Goswell e sodali è commistione pressochè perfetta di equilibrio ed estasi, di misura e trasognata potenza, forse ancor più bello e coinvolgente rispetto a quello (comunque magnifico) fissato nei dischi in studio. Della sacra triade delle meteore shoegaze di inizio anni Novanta, composta oltre che da loro dai (redivi anch’essi) My Bloody Valentine e dai Ride, gli Slowdive hanno rappresentato il volto meno irruento e più etereo e spirituale. Amando profondamente anche le altre band citate, ho sempre mantenuto un affetto particolare per i fissascarpe di Reading. Ecco quindi il miraggio, l’impossibile che si materializza su uno dei grandi palchi della rassegna catalana. Miraggio che sfuma nell’aurora divina proiettata dai riverberi super emozionanti della conclusiva “Golden Hair” (cover di Syd Barrett), che suggella un concerto che è un capolavoro di eleganza discreta e struggente passionalità . Per queste orecchie il miglior live del festival.
(Luca Dustman Morello)

THE NATIONAL
Questa è la quarta volta in meno di undici mesi che mi ritrovo ad ammirare il livello etilico di Matt Berninger raggiungere vette preoccupanti (perchè, come saprete, ogni concerto è almeno una bottiglia di vino). Inferiori rispetto alle altre tre, I National però sanno sempre come fregarti/mi. Sicuramente il loro live in cui son entrato più in trance, nonostante o forse grazie alla loro non impeccabilità  (su tutte una “Demons” francamente improponibile, con la voce di Berninger udibile a malapena). Speravo in qualche chicca da Alligator, inserita nelle ultime scalette, invece niente.

Due sorprese: la prima, in positivo, è la sempre toccante “About Today” (non la propongono più tanto spesso) quasi in chiusura; la seconda, in negativo, l’assenza di “Vanderlyle Crybaby Cry” in acustico che, di norma, è il vero congedo (stavolta niente, non c’era più tempo). Per il resto livelli di pathos altissimi, che ve lo dico a fare. Anche in una serata così e così la band dell’Ohio si conferma la spalla su cui piangere e a cui aggrapparsi nei momenti grigi. Da segnalare la presenza ormai fissa in scaletta di “Hard To Find” e quella di un tizio che, parlottando con la sua ragazza di festival estivi, si ostina a chiamare il Coachella ” Cocilla”
(Alessandro “Diciaddùe” Schirano)