Michael Gira ha iniziato ad assumere LSD a dodici anni, e ne ha compiuti sedici in una galera di Gerusalemme mentre scontava una pena di quattro mesi e mezzo per aver venduto droga. Ora, a sessant’anni, frequenta una piccola chiesa di periferia, senza prendere tutto per vero incondizionatamente, ma attratto da questo slancio verso l’Infinito e la Perfezione, dice lui in svariate interviste che potete trovare in giro per la rete.

E non è mica l’Aldilà  quello descritto in “Screen Shot”, pezzo con cui “To Be Kind” si apre? No pain, no death, no fear, no hate / No time, no now, no suffering / No touch, no loss, no hand, no sense / No wound, no waste, no lust, no fear / No mind, no greed, no suffering.
Altri riferimenti in “Bring the Sun / Toussaint L’Ouverture”: Sangre de Dios! Hijo de Dios! Amor de Dios! Sangre es vida! Vida es sangre! Sangre es amor! Amor es sangre! Amor! Amor!
Booklet alla mano, la parola “love” (o “amor”) compare in sei delle dieci canzoni in scaletta. Aggiungetecene un’altra intitolata “She Loves Us”, e un’altra ancora, la conclusiva “To Be Kind” (canzone d’amore bella e buona: To be found in the sun of this room / There are millions of stars in your eyes) e potreste avere la sensazione di trovarvi a che fare con un Gira sì “maturato” e “saggio”, ma pure un po’ rammollito.

E invece no.
“She Loves Us” – lo conferma lo stesso Gira in una delle interviste cui accennavo – parla di sesso (Your name is fuck! Your name is fuck! Your name is fuck! Your name is fuck!) (in realtà  quegli halleluiah finali mi fanno pensare anche qui ad una apostasia della vita secolare e ad un abbraccio del Divino, con tanti vaffanculo – appunto – alla razza umana. In “The Apostate”, due anni fa, si cantava Get out of my mind / We’re on a ladder to God). E quell’heaviness monumentale già  sbattutaci in testa con “The Seer” pervade tutte e due le ore (eh sì, ancora) di “To Be Kind”. Parliamo di un disco il cui primo singolo estratto è stato “A Little God In My Hands” (a proposito, Oh universe! You stink of love – puzzi d’amore, eccolo il nuovo Gira che non rinnega la sua primitività ): dopo qualche ascolto mi ci ero abituato, mi sembrava davvero un pezzo quasi pop. Poi l’ho fatto ascoltare ad un mio amico (che pop non ascolta) e all’altezza di quei coretti incomprensibili (assenti anche nel booklet – secondo me dicono Son qua, sogni di marzapane / Son qua, sogni di marzapane) mi ha detto “Cazzo ma è proprio pesante” – lui è americano e ha usato l’aggettivo heavy, che descrive meglio ciò di cui parliamo. E se gli avessi fatto ascoltare l’altro “singolo” (ahahah) “Oxygen”? O il pezzo in cui la “o” di “love” nel verso I need love di “Just A Little Boy (For Chester Burnett)” arriva a trapanarti i timpani? O ancora i 34 minuti di “Bring the Sun / Touissant L’Ouverture”, con quei centoventi secondi iniziali di accanita iterazione chitarristica e il delirio urlato verso i ventinove minuti? Sarebbe probabilmente fuggito dal campus in preda a spasmi.

In realtà  quella degli Swans di questo nuovo corso (non tanto a partire dal ritorno del 2010 di “My Father Will Guide Me Up On A Rope” ma da “The Seer”) tocca solo di striscio il nichilismo (termine che a Gira non sta bene, per la verità ) dei loro anni ’80, partendo per una tangente verticale e trasformandolo in slancio verso l’alto, verso l’Infinito (e torniamo al discorso iniziale). Si ascolti ancora la progressione di “Bring The Sun”: c’è del celestiale negli arpeggi dopo quei due minuti di cui parlavo, così come c’è del celestiale nel crescendo (con cori a cui prende parte Annie Clark aka St. Vincent) dalla metà  all’inizio di “Touissant”. Tutto ciò, unito al minutaggio tanto apparentemente improponibile quanto, una volta presa dimestichezza, necessario e appagante, dà  vita ad una musica vagamente cinematografica. E infatti “Kirsten Supine” è stata ispirata dalla scena di “Melancholia” di Lars Von Trier in cui Kirsten Dunst si lascia cadere nel lago vestita da sposa mentre l’universo collassa. Ecco, lì gli Swans si fanno addirittura evanescenti nella prima parte, per poi raffigurare quel collasso con i loro proverbiali toni lugubri, le campane riprese da “Avatar” (ancora “The Seer”), violini stridenti e quant’altro.

“To Be Kind” è un album tracotante. Talmente tracotante e (ad oggi) definitivo che il già  definitivo predecessore, al suo cospetto, appare oggi come una prova generale. Michael Gira è qui a dimostrare che un cuore smussato agli angoli non significa avere palle meno quadrate. Che anzi, parafrasando gli Smiths, ci vogliono palle quadrate to be (gentle and) kind.