Prologo
Ho nove anni, maggio sta finendo, l’anno scolastico si sta stiracchiando molle verso la sua conclusione. A Catania fa già  caldo. Sono in camera mia e guardo “Holly e Benji”, la finestra aperta e la serranda giù che fa filtrare strisce arancioni e calde. Mio padre torna dal lavoro, mi da un bacio sulla fronte e mi porge un cd fresco di masterizzatore: è “Fifa 98 Road to World Cup”. Aspetto che finisca “Holly e Benji”, poi accendo la Play Station e inserisco il disco. Parte “Song 2” dei Blur ed è uno di quei momenti che definiscono un prima e un dopo.

Quando Damon Albarn sale sul palco dell’Anfiteatro del Vittoriale si compie la magia: il tempo si accartoccia su se stesso, si tende e si contrae e si congela nel corpo di Damon Albarn, nelle sue corde vocali, nelle rughe sulla fronte e attorno alla bocca, negli occhi azzurri e nei capelli spettinati.
Sull’attacco sincopato di “Lonely Press Play” Damon invita il pubblico ad alzarsi dai propri posti e a venire sotto al palco. Subito dopo tocca a “Everyday Robots”. I dubbi sulla resa live di un disco intimista in cui la cura del suono è maniacale vengono spazzati via come le nubi che incombevano su Gardone fino pochi minuti prima del concerto (Nice weather, isn’t it? dirà  Damon in uno dei numerosi momenti di interazione con il pubblico). Fuori dallo studio di registrazione le canzoni di “Everyday Robots” diventano vive, si “sporcano” e saturano l’aria dell’Anfiteatro del Vittoriale con la malinconia nata dallo sguardo lucido e dalla sensibilità  di un artista eclettico che ha raggiunto la maturità  insieme alla sua musica.

Damon poi va a pescare nel suo passato, infilando un terzetto di canzoni dei Gorillaz: “Tomorrow Comes Today”, “Slow Country”, “Kids With Guns”. Con l’intro di melodica di “Tomorrow Comes Today” torno indietro alle scuole medie, quando non riuscivo a cavare un solo suono decente da quello strumento buffo che nelle mani di Damon Albarn diventa magico e ipnotico (e mi ritroverò, alcuni giorni dopo, a fischiettare quel motivetto un po’ epico e western e un po’ urbano e decadente mentre lavo i piatti).

C’è spazio per tutte le maschere indossate da Damon negli ultimi anni. A metà  concerto arriva il momento di Rocket Juice & The Moon, il supergruppo messo su insieme a Tony Allen e a Flea nel 2012: tocca a “Poison” e “Dam(n)”, cantata insieme al rapper ghanese M.anifest.
C’è una parte del passato di Damon Albarn che ho visto stampata sulle magliette di alcuni spettatori all’ingresso, prima di poter accedere all’anfiteatro, mentre mangiavo in fretta un panino nella piazzetta antistante. Stiamo parlando di un pezzo di storia (non solo della musica) individuale, più che inglese, un pezzo del passato di ognuno di noi che siamo venuti a rendere omaggio all’ex faccia da schiaffi della Cool Britannia: i Blur. A ogni pezzo spero di sentire partire l’attacco di batteria di “Song 2”, perchè vorrei tornare a essere un bambino di nove anni che si fa venire i calli sulle dita pur di vincere la Coppa del Mondo incalzato dagli “woo-hoo” di Damon. In realtà  non c’è molto spazio per i Blur, ma “Out of Time”, “All Your Life” e “End of a Century” sono tra i momenti emotivamente più forti del concerto, insieme al medley di “Photographs” e “Kingdoom of Doom” (brano, quest’ultimo, dell’altro supergruppo creato da Damon nel 2007 con Paul Simonon, Tony Allen e Simon Tong).

Damon diventa uno sciamano in grado di illuminare dei pezzi di passato e di farli rivivere nella luce vivida e pulsante del presente, ma senza rimpianti o nostalgie.
In chiusura c’è spazio per “Clint Eastwood” (cantata di nuovo insieme a M.anifest) e per l’accoppiata “Mr Tembo” – “Heavy Seas of Love”, impreziosite dal coro gospel, il cuore soul dei The Heavy Seas, la band (composta da Seye Adelekan al basso, Pauli The PSM alla batteria, Jeff Wootton alla chitarra e Mike Smith alla tastiere) che accompagna dal vivo Damon.

Epilogo
In quasi due ore di concerto non sono riuscito a riabbracciare il me bambino di nove anni, e forse è stato meglio così. Ho rivisto, come attraverso il vetro del finestrino di un’auto in corsa, alcune fasi della mia vita che erano state accompagnate dalla musica dei Blur, dei Gorillaz e dei The Good, The Bad and The Queen. Ho rivisto quelle versioni di me e ho sentito sulla pelle le sensazioni che si provano in quella lunga (e forse interminabile) transizione verso l’età  adulta che è l’adolescenza. Ma non ho provato nessuna nostalgia, nessuna voglia di tornare indietro, nessun bisogno di fermare tutto per correre ad abbracciare il passato.
“Everyday Robots” raccoglie in sè tutti i segni e le influenze di più di vent’anni di vita e di carriera. Con “Everyday Robots” Damon mette ogni cosa al suo posto e questo live ne è la testimonianza.
Damon Albarn ha attraversato il tempo con serenità  e senza malinconia, lo sguardo rivolto a un futuro che ha già  gettato il suo seme nel presente. Damon Albarn è passato in mezzo agli anni senza lasciarsi intrappolare dalla materia viscosa di cui è fatto il tempo, ha scelto di cambiare pelle continuamente per preservare la sua sensibilità  e il suo sguardo, non ha mai smesso di essere curioso nei confronti di mondi e modi di fare musica lontani. Damon Albarn ha messo insieme tutte le immagini di sè che ha costruito nel corso degli anni e le ha portate sul palco. La cosa davvero sorprendente è stata sentire che quelle immagini, accostate l’una all’altra, non compongono altro che il mosaico raffigurante un artista e un uomo al culmine della propria maturazione.

Setlist
Lonely Press Play
Everyday Robots
Tomorrow Comes Today
Slow Country
Kids With Guns
Three Changes
Hostiles
Photographs
Kingdom of Doom
You and Me
Dam(n) (ft. M.Anifest)
Poison
Hollow Ponds
El Manana
The History of a Cheating Heart
Out of Time
All Your Life

-Encore-

End of a Century
Clint Eastwood (ft. M.Anifest)
Mr. Tembo
Don’t Get Lost in Heaven
Heavy Seas of Love