#10) HAMILTON LEITHAUSER
Black Hours

[Ribbon Music]

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Disco solista per la voce dei The Walkmen. Un disco intenso, elegante, che non disprezza la tanto ammirata ricetta conosciuta con i precedenti “Lisbon” e “Heaven”. Anzi Leithauser con “Black Hours” la rimette in gioco con una voce in forma, più educata, più efficace che rende ancora di più.

Piano, rock’n roll, ballads che ti colpiscono come frecce infuocate e un paio di pezzi davvero sorprendenti come “Self Pity” e “5 A.M.” fanno di questo disco non un tipico lavoro solista ma la conferma delle qualità  dell’artista New Yorkese.

#9) DAMIEN RICE
My Favourite Fade Fantasy
[Warner Bros]

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Otto anni dopo l’uscita di “9”, otto anni in cui si è parlato molto di questo ragazzo irlandese. Una della rare anomalie della scena musicale contemporanea, un artista molto amato, capace di vendere tre milioni e mezzo di copie in tutto il mondo eppure continua a ignorare lo status di divo. Otto anni dopo Damien Rice è tornato con un disco non paragonabile (O è una perla rara e unica) ma sincero, vivo che emoziona tanto.

E’ un disco triste e delicato. Dopo diversi ascolti ti senti conquistato dalle otto tracce inserite nel disco e non puoi più farne a meno.

#8) ALT-J
This Is All Yours

[Atlantic/Infectious]

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Il secondo disco degli Alt-J, che hanno perso per strada il bassista, è un disco ambizioso che mostra una stramba maturità  non pretenziosa.

Colpisce l’intenzione di esplorare nuovi mondi come il Giappone ma anche la campagna inglese attraverso un sound meno metropolitano ma più atmosferico ed etereo. Un disco pregiato con melodie atipiche ma stravaganti, intriganti come un racconto di Murakami (se mi permettete il paragone).

#7) TIMBER TIMBRE
Hot Dreams
[Arts and Crafts/Full Time Hobby ““ 2014]

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Da molti definita come una band cinematografica per le atmosfere, i Timber Timbre sfornano un disco, il quinto, pieno di fascino con una sorta di classicismo pieno di grazia. Le melodie della voce profonda e baritonale di Kirk danno vita a una ricerca degli standard pop e folk vissuti con la nostalgia di chi, come noi che ne stiamo scrivendo, guarda con una romantica nostalgia canzoni e melodie senza tempo, struggenti, intense e allo stesso tempo polverose.

La title track è un capolavoro autentico tra i migliori pezzi dell’anno.

#6) SHARON VAN ETTEN
Are We There

[Jagjaguwar]

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E’ che disco il quarto di Sharon Van Etten! Una drammaticità  vera, senza mezze misure, una maturità  impreziosità  da un talento e un’abilità  innata per le melodie introverse ma incredibili. E’ poi non salti un pezzo. E gli arrangiamenti. E che ve lo dico a fare.

Appena senti le prime note intuisci la stoffa del grande album.

#5) TWEEDY
Sukierae

[dBM]

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“Sukierae” è un viaggio lungo, logorante a tratti solare, positivo e poi pensoso, riflessivo e quasi spesso istintivo. Un mix esplosivo di generi, che si avventura nel rock passa per il folk, l’alt country, l’avant folk esplorando il jazz e psych.

Nell’intero disco si può assaporare la polvere americana, quella del sud americano come in un romanzo di John Fante. Un disco familiare con un Jeff Tweedy apparso in una buonissima condizione e un figlioletto batterista che seppur giovanissimo già  sa il fatto suo.

#4) REAL ESTATE
Atlas

[Domino]

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Dopo averli conosciuti apprezzati con il loro secondo disco “Days”, mi sono figurato, in questi anni che hanno anticipato l’uscita di “Atlas”, l’ipotetico appunto seguito. “Atlas” è quello che volevo ascoltare. Una linea di continuità  stilistica e sonora che non ti stanchi mai di sentire.

Piccole perle di pop/folk semplice e minimale, placido e legato allo scorrere del tempo. Un tempo tutto personale e strettamente connesso alla memoria. Un tempo che si dilata, un naufragare dolce e sognante. Ah quei riverberi, che meraviglia.

#3) BECK
Morning Phase

[Capitol]

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Quando Beck mette mano alla chitarra acustica possiamo solo essere felici. “Sea Change” nessuno l’ha mai dimenticato. Il sound di “Morning Phase” è preciso e pulito, volutamente semi-polveroso, malinconico molto e riflessivo. L’ossatura del lavoro è caratterizzata da canzoni che iniziano con la chitarra acustica che poi si immergono in vasti e splendidi canyon del suono.

Un super ritorno. Dopo tante produzioni validissime e superlative volevamo un suo disco con dentro tutta la sua classe.

#2) MAC DEMARCO
Salad Days

[Captured Track]
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L’ha fatta grossa Mac DeMarco. Dopo essersi imposto con la sua spiccata scanzonateria anche in “Salad Days” le sue canzoni che sembrano esser fatte per un piccolo garage dove strimpellare e buttare giù quello che si ha dentro sono diventati tormentoni alternative. Pezzi scanzonati, sognanti, sfuggevoli, leggeri quasi mai impegnativi ma nemmeno banali.

La title track è un piccolo gioiellino e una dopo l’altra le canzoni sono riuscitissime. Evadi e ti lasci andare nei meandri del pop, quello che pochi veramente conoscono.

#1) DAMON ALBARN
Everyday Robots

[Madlib Invazion]
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“Everyday Robots” sulla scia di “Think Tank” si concentra su pochi suoni riconoscibili: Il pianoforte, la chitarra acustica, beat elettronici con numerose sfumature Afro (una passione che Albarn coltiva dai tempi dei Seymour) e orchestrazioni equilibrate. In più si sentono in background per tutti il disco svariati suoni e rumori figli del nostro tempo, ormai grandi e vivi nella sua Londra e in tutte le metropoli europee. Immaginate Albarn starsene lì all’ultimo piano di un palazzo con finestre che abbracciano quasi tutta la città  di Londra e raccontare quello che vede e sente. Perchè è vero “Everyday Robots” sembra la colonna sonora della Londra del duemila.

Canzoni bellissime, dotate di classe ed eleganza, una maturità  e una consapevolezza spiazzanti, un suono underground, minimalista ma anche e soprattutto cosmopolita. .