Posizioni: [ #50 – #41 ] / [ #40 – #31 ] / [ #30 – #21 ] / [ #20 – #11 ]

#10) FKA TWIGS
LP1

[Transgressive/Anti]
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C’è qualcosa che si muove lungo le dieci tracce di “LP1”, una sensualità  che si carica di trip-hop e alternative R&B per diventare un’altra cosa, un animale cangiante e liquido che appare a tratti in tutta la sua bellezza, come se i fari di un’auto lo illuminassero nel buio. E il risultato è che, una volta che ce l’hai davanti agli occhi, resti ipnotizzato a guardarlo.
( Sebastiano Iannizzotto )

#9) CLOUD NOTHINGS
Here And Nowhere Else

[Carpack Records/Mom + Pop]
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In una galassia lontana lontana, c’era una cosa chiamata Rock ‘n roll.
Una cosa un po’ vecchia dalle mie parti, ma che di sicuro piacerà  ai vostri figli.
Ho visto il futuro del Rock: si chiamano Cloud Nothings.

Solo tremila persone comprarono il disco dei Cloud Nothings, ma ognuna di loro formò una band, tranne un tizio che fu assunto al Monte dei Paschi.
Che bello, potrei starci mezza giornata a scrivere tutto tramite inflazionatissime citazioni.
Ma la pianterò qui, cercando di cavarne fuori una marchetta degna del Mollicone nazionale: si chiamano Cloud Nothings, sono bravi, giovani, hanno voglia di suonare, scrivono grandi canzoni, le chitarre spaccano. Tutto spacca. Vincenzo non avrà  mai usato il verbo “spaccare” in questo senso, ma per questo gruppo lo scomoderebbe volentieri pure lui.
Giunti alla terza prova in studio (quarta, se si conta il disco autoprodotto e realizzato dal solo leader), i ragazzi danno una ulteriore prova di bravura, dimostrandosi una vera macchina da guerra. Incassano e portano a casa quello che considero, a titolo del tutto personale, il disco Rock dell’anno.
( Marco Renzi )

#8) MOGWAI
Rave Taps

[Sub Pop]
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I Mogwai in campo post rock sono ormai un’istituzione. Intensi, brillanti, dark e malinconici confezionano un altro bell’album. “Rave Tapes” è un’emozione continua che trasporta lontano, un esercizio di stile che preferisce la penombra della sera alla luce accecante del mezzogiorno.

Curato fin nei minimi dettagli con la solita, incredibile meticolosità  a cui il quintetto scozzese ha abituato, cresce ascolto dopo ascolto.
( Valentina Natale )

#7) ST. VINCENT
St. Vincent

[Loma Vista/Republic]
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Se esiste qualcosa come la musica intellettuale dopo il progressive rock, dev’essere quello che fa Annie Clark ai giorni nostri. Otto brani imprevedibili e immaginifici per la sua “Birth in Reverse”, che mi piace ancora una volta chiamare “resurrezione a testa in giù”. Sì, perchè St.Vincent non ama certo le direzioni prestabilite, nemmeno per ascendere ai cieli.

Parola chiave: distopia (presente).
( Serena Riformato )

#6) ICEAGE
Plowing into the field of love

[Matador]

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In Danimarca ci sarà  anche a capo del governo una bellissima bionda socialdemocratica, ma fortunatamente qualcosa non funziona come dovrebbe. Magari invecchiando si pogherà  con più ritegno, forse qualcosa è meno affilato rispetto al passato e probabilmente troveremo altre trombe in futuro.

Di certo “I always had the sensethat I was split in two” rimarrà  uno dei fili conduttori e allora prendetevi una bottiglia del vostro distillato preferito.
I “keep pissing against the moon” è sempre opzione disponibile.
( Alessandro Ferri )

#5) CHET FAKER
Built On Glass

[Downtown/Fontana North]

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Al primo posto Chet Faker per aver rielaborato l’electro-soul con l’R&B, una sezione di fiati ben architettata e dato spazio ad ambienti hip-hop con una dinamica mai vista prima. Un album vellutato, meditativo, curato in ogni suo aspetto, un muro sonoro tracciato da un impianto vocale senza macchia.

Un jazz quasi futurista di cui ricordare la delicatezza e l’approccio quasi etereo.
( Fabio Nieddu )

#4) THE WAR ON DRUGS
Lost In The Dream

[Secretly Canadian]

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Per una nuova idea di folk, fluido e sognante. “Lost In Dream” è l’ideale per chi ama trascinarsi a divagazioni sonore sullo stile dello space rock, strizzando l’occhio anche a Tom Petty.

Al songwriting di Adam Granduciel, il merito di aver scritto una nuova pagina del folk americano.

#3) SHARON VAN ETTEN
Are We There

[Jagjaguwar]

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E’ che disco il quarto di Sharon Van Etten! Una drammaticità  vera, senza mezze misure, una maturità  impreziosità  da un talento e un’abilità  innata per le melodie introverse ma incredibili. E’ poi non salti un pezzo. E gli arrangiamenti. E che ve lo dico a fare. Appena senti le prime note intuisci la stoffa del grande album.
( Angelo “The Waiter” Soria )

Prendere una storia e farla parlare è un miracolo, come affrancarsi da un dolore, senza rimuoverlo. Questo non è un disco felice, eppure a me fa stare bene: come quando ci siamo messe a ridere nei nostri letti gemelli anche se la situazione non lo prevedeva, o abbiamo ballato fino a cadere esauste, come quando abbiamo cantato le sue canzoni, muovendoci con esagerata teatralità  nel tramonto.
( Sara Marzullo )

Sharon Van Etten è ancora un problema nel 2014, io non so se esserle grata o meno e “Are We There” è bellissimo nel modo banale delle cose di cui non riesci a parlare senza usare superlativi infantili.
Parola chiave: viscere.
( Serena Riformato )

#2) DAMON ALBARN
Everyday Robots

[Warner/XL]
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Immaginate Albarn starsene lì all’ultimo piano di un palazzo con finestre che abbracciano quasi tutta la città  di Londra e raccontare quello che vede e sente. Perchè è vero “Everyday Robots” sembra la colonna sonora della Londra del duemila. Canzoni bellissime, dotate di classe ed eleganza, una maturità  e una consapevolezza spiazzanti, un suono underground, minimalista ma anche e soprattutto cosmopolita.
( Angelo “The Waiter” Soria )

Damon Albarn ha ristretto il campo d’azione estendendolo all’infinito: può fare qualsiasi cosa. Anche raccontarsi senza veli con il pop, concetto base di questo “Everyday Robots”. Paure da solitudine postmoderna abitano i testi supportati da un forte tradizionalismo, gospel, trame elettroniche che riassumono la carriera con un’autobiografia sincera.
( Fabio Nieddu )

Insomma, non si poteva chiedere di meglio, caro Damon. Quando penserò a una cosa bellissima successa nel 2014, penserò a te e Brian Eno che incidete “Heavy Seas Of Love”. E guai a chi mi verrà  a dire “eh, ma non si saranno manco visti”: se ne vadano già  preventivamente affanculo.
( Marco Renzi )

C’è di tutto: dai ricordi d’infanzia, al rapporto con le trappole del mondo moderno (l’homo technologicus sempre più privo di umanità ), dalla dipendenza da eroina all’incontro con un piccolo elefante orfano. Ci sono versi leggeri e altri duri nella loro sincerità  (Digging out a hole in Westbourne Grove/Tinfoil and a lighter, the ship across/Five days on, two days off), versi che affrontano temi cari al mondo della musica e della letteratura – la droga, la solitudine – senza retorica, con uno stile asciutto e diretto, che preferisce non nascondersi dietro metafore oscure e scontate.
( Sebastiano Iannizzotto)

#1) SUN KIL MOON
Benji

[Caldo Verde]

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Un Kozelek strepitoso sfoga la sua vena tra malinconie e divertimenti, raccontando se stesso con quel pizzico di distacco e disillussione che rende questo disco una bella pagina di letteratura musicale.
( Enrico “Sachiel” Amendola )

Canzoni così non se ne scrivono e non se ne sentono quasi più. Sono in pochi a potersi permettere questo incredibile connubio tra voce e chitarra: sei corde pizzicate e accarezzate, una voce che narra il dolore assieme ai più semplici risvolti di un’esistenza.
Niente di più distante da chi cerca a tutti i costi l’artista maledetto. Niente di più raro, niente di più bello.
( Marco Renzi )

Tutta la vita in musica: mamma, papà , lo zio Ben, Carissa, la morte, l’amore, il sesso, e quella volta che ho visto il film The Song Remains The Same quando ero solo un bambino, un bambino malinconico, che ora ce lo racconta; e che è diventato un grande musicista.
Parola chiave: fuori categoria.
( Serena Riformato )

Il (diciamolo) capolavoro di Mark Kozelek è musica ma non solo, è letteratura ma non solo, è un film ma non solo. E’ parte della vita di un uomo, snocciolata senza pudore e, anzi, con orgoglio. E’ l’esistenza di personaggi dell’America quotidiana elevata ad opera d’arte. “Benji” è pregno di morte fin nel midollo, è vero. Nel fare ciò, paradossalmente, celebra la vita.
( Alessandro “Diciaddùe” Schirano )

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