Posizioni: [ #40 – #31 ] / [ #30 – #21 ] / [ #20 – #11 ] / [ #10 – #1 ]

#50) ANDY STOTT
Faith In Strangers

[Modern Love]

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Nel 2012 andai a Manchester nel giorno in cui uscì “Luxury Problem”. Manchester è la mia città  preferita. Sarà  per gli Smiths e per i New Order, sarà  per i mattoni rossi, sarà  per il Fish & Chips in Liverpool Road, sarà  per la nebbia che coccola una classe operaia che si smazza.

Ciò che mi piace di più di “Luxury Problems” è la sua compattezza, la sua monoliticità , il suo essere tutto d’un pezzo. Ciò che mi piace di più di “Faith In Strangers” è la sua frammentarietà , il suo diversificare la proposta, il suo zigzagare tra dub, techno, ambient (il primo beat entra in scena intorno al minuto nove),
jungle (probabilmente eredità  della collaborazione “Drop The Vowels” con Miles Whittaker dei Demdike Stare dietro il moniker Millie & Andrea) e narcolettica dubstep (il singolo “Violence”, uno dei pezzi dell’anno). A questo punto Andy Stott può intraprendere qualsiasi strada. Certo è che come traduce in musica Manchester lui, come mi porta a Manchester lui (o come porta Manchester nelle mie orecchie lui) non sa farlo nessun altro.
( Alessandro “Diciaddùe” Schirano )

#49) MIREL WAGNER
When The Cellar Children See The Light Of Day

[Sub Pop]
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Mirel Wagner è dolce e inquietante. Una donna che va in giro tenendo in mano e per mano il manico della sua fida chitarra acustica, cantando alla luna minimali ballads folk e blues che sembrano uscite da un racconto di Edgar Allan Poe o dalla penna del Nick Cave migliore.

“When The Cellar Children See The Light Of Day” è un piccolo rito voodoo in musica. Doloroso come tanti piccoli aghi che penetrano la pelle. Spettrale. Se lo ascolti, ti resta addosso.
( Valentina Natale )

#48) LOSCIL
Sea Island

[Kranky]

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Elegia del tempo perso. Accartocciarsi nei loop è uno dei passatempi che preferisco, se poi fosse possibile stipulare un contratto con Loscil sarebbe perfetto. Un inverno, un disco e così via per sempre. Vista la dipendenza da ambient esiste una pianificazione socialista del tempo a disposizione.

La maggior parte della torta è riservata ai “The DisintegrationLoops” di William Basinski. “Sea Island” mi ha sicuramente fatto sforare le ore a disposizione, ma il muro di Berlino è caduto da tempo e i limiti posti dalla mente sono meno precisi dei piani quinquennali.
( Alessandro Ferri )

#47) TWEEDY
Sukierae

[dBM]

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“Sukierae” è un viaggio lungo, logorante a tratti solare, positivo e poi pensoso, riflessivo e quasi spesso istintivo. Un mix esplosivo di generi, che si avventura nel rock passa per il folk, l’alt country, l’avant folk esplorando il jazz e psych.

Nell’intero disco si può assaporare la polvere americana, quella del sud americano come in un romanzo di John Fante. Un disco familiare con un Jeff Tweedy apparso in una buonissima condizione e un figlioletto batterista che seppur giovanissimo già  sa il fatto suo.

( Angelo “The Waiter” Soria )

#46) GIARDINI DI MIRO’
Rapsodia Satanica

[Santeria]

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Non è una provocazione mettere un gruppo italiano al quarto posto: “Rapsodia Satanica” è un disco che, anche tolto il lavoro magnifico di sincronizzazione sulle immagini dell’omonimo film muto, può giocare ad armi pari con il gotha del post-rock mondiale (Mogwai, Explosions in the Sky, fate voi).

Se conoscete i Giardini di Mirò, basti dire che questo è uno dei loro migliori lavori di sempre. Se non li conoscete ancora (male!) questo è il momento per innamorarvene. Sarebbe bello se accadesse anche fuori dall’Italia.
( Francesco Negri )

#45) REAL ESTATE
Atlas

[Domino]

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Dopo averli conosciuti apprezzati con il loro secondo disco “Days”, mi sono figurato, in questi anni che hanno anticipato l’uscita di “Atlas”, l’ipotetico appunto seguito. “Atlas” è quello che volevo ascoltare. Una linea di continuità  stilistica e sonora che non ti stanchi mai di sentire.

Piccole perle di pop/folk semplice e minimale, placido e legato allo scorrere del tempo. Un tempo tutto personale e strettamente connesso alla memoria. Un tempo che si dilata, un naufragare dolce e sognante. Ah quei riverberi, che meraviglia.
( Angelo “The Waiter” Soria )

#44) TINARIWEN
Emmaar

[Anti]

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Avete presente i tuareg del deserto? Bene, ora immaginateli accampati durante il tramonto mentre imbracciano chitarre e percussioni. Ma non basta. I Tinariwen non sono troppo etichettabili: la multiculturalità  il loro aspetto più efficacie.

Blues, danze orientali, mantra ossessivi e una disperata lotta contro la piaga della guerra. Un tappeto sonoro dove si viaggia sicuri.
( Fabio Nieddu )

#43) JACK WHITE
Lazaretto

[Third Man Records]

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“Lazaretto”, il suo secondo album da solista, registrato nello studio dell’etichetta fondata da White, la Third Man Records/XL, fonde allora con liberissimo talento musicale tutti gli strumenti possibili, le collaborazioni più interessanti, gli arrangiamenti più fantasiosi, intrecciando un’anima musicale eclettica e deliziosa. Un disco unico ma accessibile a tutti, veloce e ritmato, fluido e contrastante nella sua tracklist, dove il mondo del rock ed il mondo del blues si riflettono a specchio, stile e vena creativa si confondono, e in una esaltazione della potenza del talento musicale del ragazzo di Detroit, il palato musicale degli ascoltatori si esalta in un album capolavoro.

Chapeau Jack, il genio esiste e proviene da Detroit.
( Matteo Giobbi )

#42) BADBADNOTGOOD
III

[Innovative Leisure]

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Quei gran mattacchioni dei BBNG abbandonano tributi vari e free downloads e sfornano il primo disco di materiale interamente autografo, mettendolo in vendita. Sono soldi benissimo spesi.

Laddove Flying Lotus porta il jazz nell’hip-hop, i tre canadesi procedono all’opposto. Il risultato è più a fuoco, sia rispetto a “You’re Dead!”, sia rispetto a “BBNG” e “BBNG2”. Questi sono cazzoni ma soprattutto ragazzi prodigio, musicisti veri capaci di giustappore, per dire, King Crimson e Earl Sweatshirt con una classe sopraffina. Se vi pare poco…
( Alessandro “Diciaddùe” Schirano )

#41) CARIBOU
Our Love

[Merge]

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Rapidi si scivola nella ipnosi tribale di “Mars”, un groviglio di ritmo martellante e visioni sciamaniche, picco massimo della climax discendente (per sonorità  non certo per intensità ) che porterà  alle due tracce conclusive “Back Home”, toccante nella sua brevità  e “Your Love Will Set You Free” un’ultima perla che strizza nuovamente entrambi gli occhi alla dance dei primi eighties lasciando l’impressione di star sentendo la propria canzone del cuore eppure di non averla mai ascolta prima di allora.

“Our Love” è un disco diretto, identitario, un intimo racconto elettronico che parla di sè ma che non fatica a cucirsi su ognuno di noi, confermando Caribou come uno degli interpreti più raffinati e artisticamente validi dell’intero panorama mondiale.
( Alberto Paone )

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