“A turbarmi era un altro pensiero, staccato dalla morte di mio padre e dalla reazione che mi suscitava: il constatare che non aveva lasciato tracce (“…) Era assente già  prima di morire, e le persone più vicine a lui avevano imparato da un pezzo ad accettarne l’assenza, considerandola il tratto più essenziale del suo essere”
(Paul Auster, “L’invenzione della solitudine”)

Sulla carta, “Carrie & Lowell” è semplicemente qualcosa del genere: il settimo album di Sufjan Stevens, 11 tracce, 44 minuti, leggeri accordi di chitarra, una voce solista delicata e fiabesca. Musicalmente nudo come nella discografia stevensiana lo era stato solo “Seven Swans” (2004).

Poi la verità  è che tutto un po’ più complicato di così e quella a cui siamo chiamati è una condivisione di umanità  simile ai patti di sangue in cui ci si confonde le ferite (le sue, le nostre) in una unica macchia senza contorno. Lui, recentemente ha dichiarato: “This is not my art project; this is my life”. Noi, di questo parleremo.

Quando Stevens ha 5 anni, la madre Carrie sposa Lowell Brams, quanto di più vicino a una figura paterna rimarrà  nella vita dell’artista. Carrie e Lowell vivono a Eugene, nell’Oregon, dove Sufjan e suo fratello passano due-tre estati felici. Sono tutti lì i pochi ricordi che sopravvivono della madre, presenza/assenza intermittente di una vita erratica, prima e dopo quel momento. Carrie abbondona i propri figli la prima volta quando Sufjan ha solo un anno, e lo rifarà  a più riprese: when I was three, maybe four, you left us at the videostore (“Should Have Known Better”). Soffre di depressione ai limiti della schizofrenia, ha problemi di dipendenza da alcol e droga. Muore di cancro nel 2012 e Stevens deve dire addio a una semi-sconosciuta che è, allo stesso tempo, il legame di sangue più stretto umanamente esperibile. Allora, “Carrie & Lowell” è certamente un album sulla rielaborazione del lutto, forse nella fase dell’accettazione. Ma è prima di tutto la costruzione a posteriori di una mitologia, la mitologia di un’immagine materna mai posseduta a pieno. Come si affronta la perdita definitiva di chi è venuto a mancarti già  molto tempo prima? è infatti nell’incompletezza che si gioca la partita più spaventosa davanti alla morte: quello che non si è detto, quello che non si è fatto, la madre che non sei stata. Qui,  la maternità  mancata si riscatta nel riconoscimento di un unico grande atto d’amore: quell’abbandono originario di chi ha tentato di salvarti dalla propria lenta autodistruzione.

In “Fourth of July”, la vicenda si fa compiuta nella straziante conversazione sul letto di morte, fittizia o effettiva che sia, poco importa. Le parole della madre: I’m sorry I left but it was for the best, though it never felt right. La risposta del figlio, in “Death with Dignity”, con la più dolce delle melodie, un luogo senza rancore: I forgive you, mother ““ ed è l’unico punto in tutto l’album in cui il nome proprio di Carrie diventa quello affettivo di “madre“; e dove se non lì, in un perdono che non ha niente di scontato? Il perdono del dolore di chi ti ha causato dolore.

Tutto questo è semplice solo da scrivere. Come si sopravvive a una sofferenza che rischia ““ non è la più grande responsabilità  genitoriale? ““ di essere ereditaria? In “Carrie & Lowell” non mancano pensieri suicidi, sprofondamenti depressivi, paura e ubriachezza (“The Only Thing”, “Eugene”): per sua stessa ammissione, una forma di emulazione nei confronti della madre.
Eppure, il capolavoro di Stevens è in realtà  un album confortante, di una dolcezza musicale lenitiva e accogliente. La morte è riconsegnata al ciclo naturale della vita: we’re all gonna die, viene ripetuto ritualmente in “Fourth of July”. Perchè poi tutto ricominci, così “Should Have Known Better”: “mio fratello ha avuto una figlia, la bellezza che porta, la luce”.

La consolazione ha anche il linguaggio di una religiosità  idiosincratica, affatto nuova alla creatività  di Stevens. “John My Beloved” è Giovanni l’Evangelista, secondo la tradizione discepolo prediletto: nel brano si sovrappongono sacro e profano, patatine fritte, long island drink, la preghiera più accorata (Jesus I need you, be near me, come shield me) e la voce stessa di Cristo intessuta di riferimenti neotestamentari. In “Drawn to the Blood” la preghiera diventa la domanda disperata: com’è, com’è accaduto tutto questo, Dio di Elia? Risuona l’eco della scena di abbandono più drammatica forse non solo della storia evangelica ma della letteratura occidentale: il grido di Gesù in croce, “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34). Se c’è una simbologia di corrispondenze autobiografiche, forse a questo punto della recensione non è necessario spiegarla.

Alla resa dei conti, si potrà  forse dire che “Carrie & Lowell” è un capolavoro, è l’album migliore di Sufjan Stevens, il più potente. Che in fondo abbiamo ancora un Elliott Smith e dobbiamo tenercelo stretto. Si potrà  dire, si dirà , e non sarà  abbastanza. Sono solo canzoni, è solo un album. Poi, però, è sempre tutto un po’ più complicato di così.