A tutti piace l’acqua minerale. Non è la bevanda preferita di nessuno ma la bevono tutti, e con piacere. Non la cerchi praticamente mai, ma appena la porti alla bocca, magari dopo un paio di birre, senti quel senso catartico di familiarità  e semplicità  e ricongiungimento e, soprattutto, gratitudine.
La musica di Courtney Barnett è più o meno così. Diretta, fresca, senza fronzoli, magari a volte scontata, ma con quello retrogusto di aria domestica che te la fa piacere per forza.
Piace a così tanti, poi, e così tanto che nel giro di un anno il suo doppio EP A Sea of Split Peas ha portato questa ventisettenne australiana dai club di Melbourne al festival di Coachella.
Insomma, per quanto sia abusato come termine, anche a lei viene affibbiata l’etichetta di Next Big Thing e si comincia ad aspettare con discreto hype il suo primo lavoro sulla lunga distanza.

Ed eccoci quindi arrivati a “Sometimes I Sit Down and Think, and Sometimes I Just Sit”.
Un album che riprende fortemente i solchi tracciati dai precedenti EP, aggiungendo poco, ma consolidando quella che è l’idea di song-writing di Courtney Barnett: una porta aperta verso i suoi pensieri che vengono portati all’ascoltatore senza alcun filtro intermedio.
E’ così che troviamo lunghi flussi di coscienza che, come in “Dead Fox”, partono dal suo scetticismo sul cibo biologico e sfociano in un’accusa nei confronti delle automobili che, mietendo più vittime dell’oceano, dovrebbero essere rinchiuse in parchi in cui si possano osservare da lontano. Oppure la ballata quasi psichedelica “Small Poppies”, in cui si parla di prati, tonalità  di verde nell’erba e giardinaggio.
Insomma, riassumendo, questo album non è nient’altro che uno specchio di tutti i ragionamenti sconclusionati e delle connessioni mentali improbabili che si consumano nella mente di ognuno di noi, ed è tutto molto buffo e leggero, ma non stupido.
Una sonorità  assolutamente classica, un lavoro registrato in presa diretta ruvido, distorto e genuino, banalmente alt-rock, con riff di chitarra facilotti ed ammiccanti (ascoltare Nobody Care if You Go to the Party, per credere) ed a volte quasi grunge, come nel il primo singolo estratto “Pedestrian at Best”.
Non mancano neanche le ballate di stampo dylaniano , come la delicatissima “Depreston” (che gioca tra le parole Depression e Preston, sobborgo di Melbourne) o la più cupa Kim’s Caravan.

Tirando le somme, è un LP che passa abbastanza liscio, senza grandi sussulti. Brano dopo brano, prende forma un’idea di musica fresca e diretta ma, tutto sommato, già  sentita. Una specie di summa, bignami, della musica rock Lo-Fi, che piace tanto perchè ci fa sentire un po’ tutti vicini, tra di noi e con l’artista. Fatta però questa premessa, rimane, a mio modo di vedere un album comunque di indubbio valore anche solo per la facilità  con cui riesce ad entrare in empatia con l’ascoltatore.
Rievoca quella magia ruvida e spontanea del Beck sbarbatello di “Mellow Gold” che negli anni novanta creava una specie di inno universale semplicemente riconoscendosi come perdente, o di Bugo che si chiedeva dove avesse messo il gel; la musica che diventa istantanea della nostra vita, in tutta la sua grottesca e lineare bellezza.

Ed è così che si ritorna all’incipit di questa recensione. Nessuno infatti cerca mai l’acqua minerale, come nessuno cerca mai canzoni che parlano di pensieri sul cibo e sull’amore elaborati nei momenti di insonnia notturna . Solo che, senza saperlo, ne abbiamo tutti un bisogno disperato.

Credit Foto: Pooneh Ghana