Tre sorelle inglesi crescono insieme, iniziano a cantare in cucina, sentono la radio con i genitori, a quattordici anni costringono gli amici ad andare ad ascoltarle nel pub del paese ““ anche se nessuno ha l’età  legale per bere e i genitori restano in piedi in fondo allo stanzone che qualcuno chiama sala concerti. Piacciono a tutti, sono educate, hanno le pareti delle loro stanze piene di ritagli di giornali e giocano a immaginare come si vestiranno per il loro primo concerto. Niente di coordinato, mica sono le Destiny’s Child.

Le Staves ““ il cognome Staveley-Taylor abbreviato da un’amica per sbaglio e poi per sempre ““ iniziano così: una chitarra, una canzone pop sui ragazzi che ti telefonano e non sanno cosa dire, fino alle poetesse che si leggono a vicenda prima di spegnere la luce e che parlano di sangue e vita e di cose che non sapevi di poter dire ad alta voce. Il primo LP è del 2012, poi c’è di mezzo Justin Vernon e decidono che il Mid West è uno scenario migliore per le loro canzoni. “If I was” deve nascere così, con queste tre ragazze che finiscono a lavorare (Vernon è produttore) con un musicista di cui conoscono a memoria le canzoni e che sorprendentemente conosce anche le loro, che un giorno deve avergli raccontato di quanto era drammatico e intenso chiudersi in un pollaio a scrivere un disco che riempie ancora le stanze e cambia la qualità  dell’aria, ma che quei pezzi erano fatti anche di fatica e sudore, che sulle note ci devi stare finchè non hanno il colore del tramonto del Wisconsin. L’inverno da quelle parti è tremendo, ma loro non si lamentano, prendono appunti, girano la regione e registrano un nuovo album.

Non che a certi prodotti pop si debba chiedere di cambiare il corso della musica, ma “If I was” suona già  sentito, privo di appigli: un’atmosfera sognante non è abbastanza, la solidarietà  delle camerate femminili e le sorellanze strette col sangue non sono poi così evocative. Come canzoni sussurrate mentre fuori infuria l’inverno, questo album porta il segno delle stanze immerse nel bianco e qua e là  affiora quel folk di certe musiciste di cui ti innamori ““ quelle che salgono sul palco con le gonne lunghe, e siedono sghembe sugli sgabelli e tra un pezzo e l’altro recitano dediche a uomini dai nomi che non hai mai sentito ““, il drone etereo di Julie Holter, il cantautorato di Alela Diane, le impronte digitali che Justin Vernon lascia ovunque si muova: quasi giusto, quasi bello, quasi già  dimenticato.