Poche ore fa ho rispolverato una vecchia copia del giornalino scolastico del mio liceo, in cui avevo pubblicato una delle mie primissime recensioni, quella di “The Resistance”, dei Muse.
Rileggendo quelle righe ho notato, oltre un uso discutibile della punteggiatura, un grande amore adolescenziale in cui, però, nascevano le prime crepe. Una fedeltà  incrollabile posta al servizio di una band ed uno sforzo quasi eroico (scherzo, eh) nel mascherare i limiti di quello che era, e rimane sei anni dopo, un lavoro decisamente mediocre.
Dietro a quelle belle parole a sproposito c’era la passione di un diciottenne che era maturato ascoltando i primi tre capolavori della band inglese e che era assolutamente ben disposto a perdonare un passo falso a quei tre simpatici ragazzi che gli avevano dimostrato di valere tanto.

La pazienza di quel ragazzo è finita tre anni dopo, precisamente al primo ascolto di “The 2nd Law”, quando iniziò in lui a palesarsi una triste verità : i Muse non esistevano più.

Ai tempi, il problema di fondo non era che si fossero venduti (un po’ mainstream lo sono sempre stati).
Piuttosto, che la loro svolta “commerciale” fosse stata proprio concepita male.
Si delineava il profilo desolante e decadente di una band che, non sapendo bene come fosse riuscita a riempire gli stadi, e volendo continuare a riempirli per molti anni, aveva deciso di abbandonare il proprio sound per creare un ibrido che racchiudesse tutta la musica che era passata ,passava e sarebbe passata per Wembley: dagli U2 ai Queen, con accenni di , Coldplay e (sì, per davvero) Skrillex.

Sorvolando poi su i manierismi vari e le trovate kitsch che hanno impreziosito di varie perle trash gli ultimi album.

Arriva “Drones” ed io sono scazzato (si può dire?) e disilluso. Non mi aspetto assolutamente nulla di buono.
Parte “Dead Inside” ed io mi sento già  un po’ mancare. Infatti, la prima traccia del nuovo concept album dei Muse è un’ideale continuazione di quelle che erano le sonorità  di “The 2nd Law”: un’abbondante sovrastruttura elettronica che scimmiotta, maluccio, i Depeche Mode, ed un andamento pop ed ammiccante che si chiude in un canonissimo assolo di chitarra.
L’ho fatta ad ascoltare ad una mia amica che non ascoltava i Muse da tempo, senza svelarne la paternità , presentandogliela solo come ” una canzone del prossimo album che devo recensire”, e lei mi ha chiesto di cambiare traccia prima che arrivassimo alla fine.

Si continua anche peggio con “Psycho”, brano rock con un riff scontatissimo e monotono e con “Mercy”, che praticamente è una riproposizione di “Starlight” idealmente rimaneggiata da Bono Vox e Chris Martin.

Poi, succede un mezzo miracolo, quando ormai le speranze stanno per spegnersi: un filotto di tre brani che, per la prima volta in sei anni, sembrano scrittidai vecchi Muse.
“Reapers”, con il suo fingerpicking, con i suoi accenni al falsetto che tanti anni fa rese Bellamy celebre, e con il suo ritornello così catchy è la prima vera canzone riempi-spalti dei Muse dai tempi di “Black Holes & Revelations”: cioè, una canzone commerciale, orecchiabile e pronta per il pubblico in larghissima scala ma che, allo stesso tempo, presenta i segni distintivi che hanno reso celebre in passato la band del Devon. Niente di trascendentale, un brano abbastanza buono ma che, nel contesto attuale della band, pare veramente la gentile concessione di un intervento divino.

Si prosegue poi con The Handler che ripropone le sonorità  di “Absolution” ma senza riuscire a riportarne in auge la, ormai smarrita, freschezza. Sicuramente una buonissima traccia (fantastica, sempre se la inserisci nel contesto). Ascoltando, però, l’assolo intermedio di tastiere si ha come l’impressione di assistere ad un campionamento di una battuta qualunque di Stockholm Syndrome.

“Defector” (terzo ed ultimo brano del miracolino di Drones) è un po’ il brano che mancava in “The Resistance”. Cioè, abbiamo sicuramente quelle, irrinunciabili, trovate kitsch tipo gli immancabili cori alla Queen, inseriti però in un’ossatura più sobria e più, banalmente, rock. E’ un brano carino, vagamente sopra le righe, ma fondamentalmente di rock classico.

L’album si conclude poi nel susseguirsi di quattro brani abbastanza trascurabili: dalla bruttissima “Revolt” che parte con una ritmo alla “Eye of the Tiger” (nel 2015), all’ormai irrinunciabile power-ballad (Aftermath), per poi passare a “The Globalist”, un brano che parte benissimo riprendendo i suoni polverosi e “morriconiani” accantonati, purtroppo, da tempo, ma che poi si perde nel solito delirio “chopiniano” alla Exogenesis di cui nessuno ha mai sentito il bisogno ma che loro, incrollabilmente, ci propongono da sei anni.
Infine “Drones”, un brano corale che vive a metà  tra il canto gregoriano e i Fleet Foxes e che si chiude con un emblematico “Aaaameeen”.

Arrivi in fondo a “Drones” e ti viene da dire “mi aspettavo peggio”, ed è tipo la frase più triste che si possa dire. Infatti, significa che ci troviamo di fronte ad una band che ha smesso di scrivere qualcosa che valga la pena di essere ascoltato ormai da troppo tempo, e che si è adagiata su standard così bassi da fare urlare al miracolo ogni volta che riesce a tirare fuori qualcosa di decente. Cioè, questo album dei Muse è poca cosa: brani per la maggior parte noiosi e sciatti, testi banali e, senza girarci troppo attorno, con vari picchi auttoriali veramente bassi (your ass belongs to me nooow, dai.). Sorvolando poi sul fatto che è un concept che parla di quegli ambienti futuristici-dispotici-orwelliani di cui ormai è satura la loro discografia.
Ecco, in tutto questo poi ci sono quei tre brani che si salvano, e chi ci fanno dire che, ok, in passato hanno fatto di peggio: tracce che comunque non hanno vita propria e che vivono di rimandi ai capolavori passati.
C’è poco da dire, in realtà  (anche se ho detto molto).
Drones è l’ennesimo lavoro appannato di una band che sta sul tetto del mondo ma che, da tempo, non ha più nulla da dire e che, purtroppo, album dopo album, sta finendo per oscurare pure il bel ricordo lasciatoci dai loro vecchi LP.

Credit Foto: Warner Music Sweden / CC BY