Quando si parla di qualità  e sperimentazione in campo musicale, uno dei nomi che subito saltano alla mente per quanto riguarda l’ultima tornata di anni, è sicuramente quello di Steven Ellison in arte Flying Lotus, vero e proprio padrino del filone che ha dato vita alla rinascita (semmai fosse stata defunta) della black music del nuovo millennio, e considerato uno dei più geniali producer attualmente in circolazione in campo IDM e new Hip-Hop.

E proprio dalle amorevoli braccia di mamma Lotus e della sua autentica fucina di nuovi talenti nominata Brainfeeder Records, fa la sua apparizione “The Epic”, quarto lavoro in studio del geniale sassofonista californiano Kamasi Washington, vero e proprio peso massima della scena New Jazz della West Coast, con all’attivo collaborazioni da capogiro tra cui nomi del calibro di Stanley Clarke, Herbie Hancock, Mrs Lauryn Hill solo per citarne qualcuno, ed appena reduce dalla registrazione dell’ultimo acclamatissimo album di Kendrick Lamar “To Pimp a Butterfly”. Per il Gran finale di questo segmento del “The Epic Tour”, che lo ha visto protagonista in tutta Italia (prima Milano e poi Bologna), il buon Kamasi giunge nella intima e confortevole cornice romana di un Monk Club stracolmo e tirato a lucido per l’occasione, pronto ad accogliere l’ensemble di sei musicisti, che compongo la stratosferica band dell’artista statunitense, che senza farsi attendere fa il suo ingresso al centro dello stage in perfetto orario, dando ufficialmente inizio alle danze. Già  dalle prime note si capisce che il livello esecutivo è spaventosamente alto, ogni composizione dell’ultimo lavoro del guru losangelino è un crossover incredibilmente coerente e coinvolgente di traditional jazz e contaminazioni provenienti da tutti gli ambiti della black music, dal neo-soul al funk fino a giungere all’afrobeat e ai ritmi più tribali della world music, il tutto infarcito di cristalline citazioni a mostri sacri come Pharoah Sanders, Sun Ra, Albert Ayler e ovviamente John Coltrane, citazioni che nonostante tutto rimangono tali, perchè la maestria del bandleader le ingloba tutte in uno stile unico e assolutamente personale a livello esecutivo e compositivo. Alle prime sferzate di “‘Leroy and Lanisha’ brano fortemente improntato allo stile dello slow jazz, segue una reinterpretazione in stile Morna capoverdiana di “Cherokee” e l’incredibile “The rhytm Changes” vera e propria ballad jazz fusion in cui a farla da padrone è la splendida voce dell’unica corista del gruppo, fino a quel momento non adeguatamente messa in risalto.

Nelle parti solistiche ovviamente emerge tutta la qualità  e la solidità  dei musicisti presenti, alcuni dei quali, autentiche leggende della scena losangelina, come Ryan Porter al trombone, lo stesso padre di Kamasi che lo raggiungerà  sul palco per la seconda metà  dell’esibizione, Rickey Washington al sax soprano e ovviamente la premiata ditta Tony AustinRonald Bruner Jr dietro le pelli, protagonisti di una drum battle da mani nei capelli, apice ideale di una serata trionfante che si conclude con l’ultimo “‘encore’ dedicato al pubblico romano prima dell’amaro congedo. In conclusione, un live di Kamasi Washington non è un qualcosa di definibile nè tantomeno di raccontabile, un’esperienza umana e musicale che ripercorre gli ultimi 70 anni di tecnica e ricerca musicale con un’eleganza e una semplicità  fuori dal comune, che fugge ogni catalogazione e che soprattutto parla un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti i livelli, un’esperienza che diventa difficile da dimenticare e che fa presagire che non facilmente dimenticheremo anche il suo interprete, destinato a diventare un nome indelebile nella storia moderna di questo genere e l’ideale prosecutore del percorso iniziato nella metà  dello scorso secolo da quelli a cui ormai, noi tutti, guardiamo come ai giganti della musica contemporanea.

Credit Foto: Steven Pisano / CC BY