L’Australia è sempre stata terra di strane combinazioni psichedeliche e uno dei miscugli più gustosi degli ultimi tempi è quello creato dai King Gizzard & The Lizard Wizard. Sette ragazzacci che in appena cinque anni ne hanno fatte di tutti i colori e di ogni misura. Viaggiano a una media di un disco ogni sei mesi, roba da far invidia a Robert Pollard. L’unico limite che si pongono è quello dato dalla loro fantasia, che li trasporta lontano. Dopo aver sperimentato a lungo con chitarre elettriche, distorsioni e fuzz a palla (tirando fuori pure due concept album di gran livello come “I’m In Your Mind Fuzz” e “Quarters!”) e dopo essersi divertiti con pazzie varie (vedi “Oddments”) stavolta i King Gizzard hanno deciso di cambiare aria e influenze. Al bando tecnologia e elettronica, solo strumenti acustici: flauto, armonica, contrabbasso, clarinetto, chitarra classica, percussioni e qualsiasi altra cosa gli venisse in mente.

Staccare la spina, liberare la mente e accendere il cervello. Riportare indietro l’orologio dagli anni settanta ai sessanta del flower power. Un bel rischio, non c’è che dire. Per entrare nell’atmosfera giusta, “Paper Mà¢chè Dream Balloon” l’hanno registrato nella fattoria dei genitori del cantante Stu Mackenzie in quel di Victoria, circondati da cavalli e emù. Un disco bucolico, hippie nell’anima. Mancano solo Dorothy e l’Uomo di Latta e potremmo essere in una versione cartoon de “Il Mago di Oz”, con l’aggiunta di qualche interessante sostanza non ben identificata (di quelle che se te le trovano addosso rischi di brutto). Stu gioca a fare il nipotino di Ian Anderson e lo fa con stile e l’ironia del nostrano Elio (in “Trapdoor” si diverte un bel po’). “Bone” è la nuova “Vegemite”, una di quelle canzoni che hanno sopra l’adesivo con scritto fischiettamento libero, “The Bitter Boogie” blueseggia che è un piacere e dimostra che i King Gizzard funzionano anche in versione acustica e campagnola.

Melodici e orecchiabili come forse mai prima (vedi “Sense”o “Dirt” dove sembrano dei Foxygen sotto Valium o la giocosa “Paper Mà¢chè Dream Balloon”) tirano fuori un album gradevolissimo che si consuma come le ciliegie in primavera o i cioccolatini in autunno / inverno: una canzone tira l’altra. Fino a farne indigestione. Hanno rischiato, questi australiani e hanno vinto la partita. Confermano di essere una delle poche band a poter fare tutto (ma proprio tutto) quello che gli passa per la testa restando sempre se stessi, con uno stile riconoscibilissimo e fregandosene altamente delle conseguenze. E se qualcuno avesse dei dubbi basta ascoltare il finale, una “Paper Mà¢chè” dove esplode tutto, ma proprio tutto. Serve altro? Nah, è più che abbastanza.