Non si può parlare del nuovo disco dei Baroness senza ricordare il 15 agosto del 2012, data che ha cambiato la storia recente della band di John Baizley. Quella notte il tour bus su cui i Baroness viaggiavano si è schiantato vicino a Bath, in Inghilterra. Un lungo volo giù da un viadotto autostradale che ha ferito gravemente nove persone. Ad avere la peggio sono stati Matt Maggioni e Allen Blickle che per colpa dell’incidente e delle sue conseguenze fisiche e psicologiche hanno dovuto lasciare il gruppo, sostituiti da Nick Jost al basso e da Sebastian Thompson alla batteria. “Purple” è il risultato di questi cambiamenti, dei mesi, delle ore, dei giorni passati a lottare con le ferite e le cicatrici lasciate da quella notte di paura, le incertezze e il dolore da affrontare per cercare di tornare normali. Un disco dall’anima dark, a detta dello stesso John Baizley, un disco dove tutto si trasforma e tutto resta sorprendentemente uguale al passato.

E’ come se i Baroness avessero deciso di prendere parti del sound tosto del “Red Album” e alcuni degli elementi prog sperimentali di “Blue Record” fondendoli insieme in un massiccio color porpora. Ci sono brani che colpiscono con la violenza di un pugno in faccia (“Morningstar”, “Shock Me”, “Desperation Burns”) e manca solo l’arbitro che inizi a contare. Grandi armonie à  la Queen (“Chlorine & Wine”) grandi ambizioni realizzate in “Try To Disappear”, “Kerosene” e “The Iron Bell”, suonate con un bicipite degno dei migliori Mastodon e un bel gusto per la melodia. E’ una buona coppia quella formata da Nick Jost, bassista di formazione jazz, e Sebastian Thompson che invece viene dal post rock dei Trans Am. Una sezione ritmica che funziona e trascina i Baroness in una nuova dimensione rappresentata al meglio dalla ballata midtempo “If I Have To Wake Up (Would You Stop The Rain)”. John Baizley è lo stesso di sempre, capace di tirar fuori voce, cuore, anima e Pete Adams, l’altro sopravvissuto a quella notte ancora nei ranghi, non è da meno.

Lavorare con un produttore del calibro di Dave Fridmann (Flaming Lips, Sleater-Kinney, Tame Impala) invece del solito, fidatissimo John Congleton era un bel salto nel buio per i Baroness: c’era il rischio concreto che il loro sound venisse snaturato, svenduto ad esigenze di classifica. E questi, indubbiamente, sono dei Baroness molto molto più accessibili e compatti ma restano sempre i Baroness (anche se un pensierino alle chart magari l’hanno fatto pure). Non era semplice dare un successore a quella maestosa, doppia cavalcata delle valchirie intitolata “Yellow & Green”, un opera omnia che sembrava contenere tutto ciò che Baizley e soci erano stati e sarebbero diventati. “Purple” è un follow up gioioso e trionfante, che urla a squarciagola: ce l’abbiamo fatta, siamo ancora qui. Un gran bell’album rock solido come una quercia. Quello che i Baroness volevano e dovevano fare per dimostrare che dal dolore, dalla disperazione e dalla sofferenza che brucia l’anima e il corpo si può uscire rinati, scalciando e a testa alta.