Piccola premessa: decidere di recensire un album dei Radiohead equivale più o meno ad un tuffo consapevole in un ginepraio.
Scostarsi dall’aura mastodontica che accompagna questa band per concentrarsi unicamente sulla musica è impossibile.
La loro carriera, la loro leggenda, è qualcosa di palpabile ed incontrastabile ed il mio spirito critico, paragonato a tutto ciò, finisce per essere assolutamente irrilevante.
Ascoltare un nuovo brano di Thom Yorke e soci è emozionante indipendentemente da qualsiasi giudizio. Solo perchè esiste e sta nascendo per la prima volta nelle tue cuffie.
Puntualizzato ciò, per me dare un giudizio, un voto, su questo ultimo lavoro dei Radiohead è assolutamente superfluo, da un punto di vista puramente tecnico.
E’ lo stesso principio per cui quando, all’improvviso, passeggiando per Firenze, ti si erge davanti Santa Maria del Fiore ti si stringe lo stomaco per la bellezza. Ti chiedi come l’uomo abbia potuto fare qualcosa di così grandioso, dati i limiti umani che conosci tu. Ma è lì davanti a te,e tu sei felice e non pensi a come abbia fatto a costruirla Brunelleschi, tecnicamente. Semplicemente godi per la sua immensità .

Così, la musica in questi casi è qualcosa che oltrepassa la critica e l’analisi. E’ oltre. Con buona pace di tutti quelli che odiano perchè è più facile esaltare realtà  musicali meno note.

Detto ciò, focalizziamoci su ” A Moon Shaped Pool”, nono lavoro dell’iconica band inglese.
Mettendo da parte l’epopea promozionale che ha congestionato il web e di cui ormai conosciamo tutti i particolari, avendola vissuta in diretta, provo unicamente a soffermarmi sulla musica che oggi, come mai prima, è una summa, un minimo comune denominatore (non in termini valoriali) di quella che è stata l’esperienza dei Radiohead fino ad ora.
C’è il pop-rock solenne e pieno di “Ok Computer”, la cifra visionaria e glaciale di “Kid A”, l’intimismo e la catarsi di “In Rainbows” ed, in misura minore, l’ineffabile ermetismo di “The King of Limbs”.
Ci si aspetta sempre un grande stravolgimento ad ogni album, quando si parla di loro.
Qua non c’è, o perlomeno non in maniera netta come in passato. E questo appare quasi come una scelta ancora più sorprendente e netta, se inserita nella storia e nella produzione dei Radiohead.
E’ un consolidamento di tutto ciò che sono stati fino ad ora, con qualche, graditissima, aggiunta.

Come gli archi che per quanto fossero già  presenti in vari brani del passato, qua assumono un ruolo centrale, quasi di traino.
Così, nella traccia d’apertura “Burn the Witch”, l’intro festante un po’ alla Coldplay tradisce e lascia presagire un nuovo corso più solare e spensierato.
Tutto torna giù con i bassi e la drum-machine, travolgenti e voraci, ed, ancora, la voce straziata, ma potente di Thom Yorke, che, deliberando la condanna a morte, urla di bruciare le streghe.
Ho letto un commento in giro per il web, un piccola riga che mi ha fatto molto pensare: un utente su Facebook, commentando una notizia, paragonava questa canzone a “Eleanor Rigby” dei Beatles. Unicamente per l’abuso di archi, suppongo.
Ma, a mio parere, c’è di più. C’è un’atmosfera, un sentimento di accerchiamento equivalente che compare oggi come compariva quarant’anni fa, nella penna e nella voce di McCartney.
La solitudine e la persecuzione oggi come allora, nelle forme necessariamente mutevoli della storia.
Così, se nel finire degli anni ’60, l’incomprensione nasceva da un’impossibilità  nell’essere ascoltati oggi nasce da una particolare incapacità , cioè quella ad accettare gli altri. E quindi la caccia alla strega, al diverso. Ed i muri, la segregazione, l’estremismo.
E’ qui che “Burn the Witch” diventa un capolavoro degno di essere paragonato ad una pietra miliare del passato: nella misura in cui costruisce un’atmosfera angosciata, di profonda solitudine, in cui si è piccoli ed abbandonati sia nell’appiccare il rogo, sia nel finire bruciati.
E’ una consapevolezza, quella dei Radiohead che è fatta di suoni: quelli di una melodia gloriosa ed inquietante, agrodolce.
Se la canzone dei Beatles era inquietante proprio nel senso più letterale delle parola, qui la band inglese declina la paura in una forma a noi più congeniale: più luminosa, quasi affabile, ma proprio per questa ambivalenza, più pericolosa. Come il lupo che si traveste da nonna.
E’ significativo, in questo senso, pure l’andamento del brano, che sale in un climax fino all’esplosione finale, come a voler elevare ed ingigantire, in un certo senso dogmatizzare, questa nostra insicurezza violenta.

A seguire “Daydreaming”, vera perla dell’album.
Una ballata particolarmente lenta, struggente, quasi scarna per quello a cui siamo abituati.
In cui su un piano si installano in maniera leggera ed essenziale gli archi ed i suoni sintetici.
La storia è quella di una decadimento, sia del pianeta che della persona.
Come sempre, la natura diventa specchio dell’anima e così con il disastro ambientale (“the damage is done”) si identifica il disastro umano.
Il disastro personale di Thom Yorke che perde il suo amore dopo averci trascorso metà  della sua vita.
E’ una storia di una ricerca di equilibrio, disperata e poco lucida.
Si inserisce perfettamente nella narrazione il tema del sogno, che non è massima aspirazione ma mondo immaginifico in cui nascondersi ed in cui perdersi, allentando contatto con la realtà .
In questo senso, è veramente centrato anche il video di Paul Thomas Anderson in cui vediamo il frontman dei Radiohead, dall’aspetto trasandato, come se appunto fosse più incline a sognare che a pensare a se stesso, viaggiare senza metà  da una porta all’altra.
La melodia lieve e suggestiva va quindi a fondo di questa discesa introspettiva, in cui il dramma personale capovolge l’uomo ed anche le parole.

Scusatemi poi se non mi soffermerò sul pianoforte caldo e sui cori suggestivi dell’ottima “Decks Dark” o sulla chitarra ispanica e vagamente folk di “Dester Island Disk” ma preferisco parlare dei punti di rottura dell’album.
Vero momento di dissonanza, in questo senso, è “Ful Stop” in cui dopo, la limpidezza dei primi brani, torna la cupezza industriale di un giro di basso oppressivo che richiama da vicino a “The National Anthem” ed in cui il piglio ossessivo ed incontrollabile rimanda per la prima volta a “The King of Limbs” ed alla produzione di Yorke con gli Atom for Peace.
Brano, non imprescindibile ma che, con il suo intro cupo e ripetitivo e con la suo coda finale tra lamenti e chitarre, dà  concretezza al clima di inquietudine di imminente catastrofe presente in tutto l’album ed in tutta la carriera della band.

Unico brano che, in parte, segue il destino di “Ful Stop” è l’alienante “Identikit” che si apre con un riff circolare ed incidente di chitarra, molto “Morning Mr.Magpie”, mentre la voce dialoga con una sua copia sbiadita e debole, per poi sovrastarla e dominarla.
Tutto, inaspettatamente decolla in un crescendo di chitarre, synth acidi e voci stridule per poi andarsi a chiudere, dopo un ulteriore momento di quiete, in un inconsueto assolo.

Poi, c’è un piccolo miracolo chiamato “The Numbers” in cui mentre un piano in sottofondo si perde e le note si sfilacciano, la melodia viene sostenuta da una manciata di accordi, che ricordano neanche troppo lontanamente quelli di “Starway to Heaven”.
Il canto è sommesso e te ti aspetti una pioggia di coriandoli, i fuochi d’artificio da un momento all’altro.
Poi il resto è prevedibile nella sua bellezza, come qualsiasi storia ben scritta: un ritornello avvolgente e vagamente retrò, una seconda strofa più sostenuta con un’aggiunta di archi, un nuovo ritornello ed un altro petardo in aria.
La canzone si conclude, dopo un coro più raccolto e l’ultimo botto, con una coda di piano, dissonante, che mi ha ricordato tanto la fine inaspettata e perfetta, nel suo essere anticlimatica, di “Optimistic”.

Dopo le percussioni e la sofferenza di “Present Tense” planiamo dritto nel clima marziale di “Tiker Taylor Soldier Saylor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief”, che altro non è che il nome di una filastrocca, in cui il clima apocalittico si fa ancora più pressante. (“Honey, comes to me before is too late”)
Thom al canto è ispiratissimo, come in tutto l’album, e la sua voce riempie appieno l’incidere minimale del pezzo.
Tutto si costruisce un’altra volta sotto i nostri occhi e cresce in bellezza secondo dopo secondo.
La voce lascia sempre di più lo spazio agli archi della London Contemporary Orchestra, che infine prende il sopravvento in un finale struggente ed epico.

A chiudere l’album “True Love Waits”, una canzone vecchia di vent’anni ed amata già  da tempo da tutti noi, che finalmente trova il suo piccolo posto nella grande libreria dei Radiohead.
Trovo che il nome scelto per questo brano sia a suo modo profetico: il vero amore aspetta, così noi abbiamo atteso questa canzone e questo album. Nonostante profili interi scomparissero dal Web e noi non sapessimo bene cosa aspettarci.
“True Love Waits” è una canzone bella perchè, a differenza di buona parte delle altre dei nostri, è profondamente convenzionale.
Molto banalmente, è una ballata al pianoforte con un ritornello travolgente.
Come prima era un classicone acustico strappalacrime. Insomma, veri e propri topòs dela musica pop e sentimentale.
Penso che avessimo bisogno di un brano così per avere un’arma, un appiglio nei confronti di che continua a definire questi “ragazzi” con una banda di pazzi eccentrici.
Prima di tutto i Radiohead sono una band che emoziona.
Anche in maniera convenzionale, anche semplicemente annodandoti la gola con un ritornello ben riuscito.

Ho detto tanto. Forse troppo per le soglie d’attenzione del web.
Ma, per quanto le parole si ripetano, mi sembra di non aver raccontato abbastanza. Pur epurando la recensione di tutti i dettagli irrilevanti (“le canzoni sono in ordine alfabeticoo! Ficataaa!”) rimane quel senso di aver colto il senso di questo album solo parzialmente.
Perchè fondamentalmente uno potrebbe stare a parlare per pagine intere della impronta marcatissima di Greenwood nelle composizioni illuminate di questo LP ed io non ne ho fatto neppure un accenno.
Perchè le canzoni di cui non ho parlato sono comunque qualcosa di migliore della maggior parte della musica che esalto in genere.
Allora, non mi resta che smettere di grattare la superficie e concentrarmi su l’unica cosa che veramente mi pare importante quando ascolto artisti come loro.
Al di là  dell’inquietudine, al di là  del dolore di cui è intriso ogni brano, al di là  del senso di perdita e di mancanza, al di là  della melodia che ogni volta trascende i tre minuti del brano, rimane solo il profondo senso di gratitudine.
La gratitudine di chi sa di assistere a qualcosa di enorme, di unico: ad un altro piccolo pezzo d’arte che chiamiamo “A Moon Shaped Pool”.

Raph_PH [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons