Il secondo giorno al Parc del Fòrum inizia con il record personale di pazienza (un’ora in coda sotto il sole) e dei 200m piani: all’apertura dei cancelli siamo in tanti a correre per ottenere un biglietto per l’Hidden Stage. Il palco nascosto nei parcheggi sotterranei dell’area, infatti, è a capienza limitata e oggi ospita i Lush (da leggersi con un urletto da bambino eccitato).
Dopo il buon esito della missione, la giornata si apre ancora all’auditorium.

LUBOMYR MELNYK

La sala è decisamente gremita: il pianista e compositore ucraino, fresco di disco nuovo, è qui per mettere in mostra la bellezza della sua “musica continua”. Come previsto, infatti, ben presto le note iniziano a sfuggire dal piano sotto forma di trame fitte e di cascate, in cui ci si perde chiudendo gli occhi oppure osservando il palco, totalmente rapiti. Il tenero signore si intrattiene in una simpatica chiacchierata dopo i primi due lunghi pezzi, per poi chiudere con “Parasol”, un quarto d’ora abbondante di meraviglia per due pianoforti. Il tempo si ferma e la mente viaggia. L’applauso finale ci spinge tutti in piedi, inevitabilmente.

VIVA BELGRADO

I Viva Belgrado salgono sul palco, si presentano con due parole scarse e iniziano subito a disintegrare ogni atomo di quiete, nella miglior tradizione screamo. Cantano (urlano) in spagnolo e sembrano avere un buon seguito, a giudicare da quanti si stringono sotto al palco. Loro sono sanguigni ma al tempo stesso precisi e senza fronzoli: non parlano col pubblico (anzi, lo guardano appena) e riducono al minimo le pause tra le canzoni. La batteria detta tempi che vengono spesso stravolti all’improvviso e gli altri tre la seguono senza la minima incertezza, a volte indugiando in momenti praticamente post-metal. Tutti ci mettono l’anima e con la loro grinta coinvolgono un pubblico entusiasta: mezz’ora dopo la fine del set, la loro maglietta ai banchetti del merchandise sarà  già  esaurita. Una band da tenere d’occhio.

LUSH

Eccoci finalmente per uno di quegli eventi “una volta nella vita” che capitano ogni anno al Primavera. Armati di biglietto (gratuito) faticosamente ottenuto, seicento fortunati affollano l’Hidden Stage. I Lush salgono sul palco e, lo ammetto, penso subito “sembrano i miei zii”. Ma appena partono le note di De-luxe i dubbi vengono spazzati via da un’onda sonora inconfondibile. I volumi sono altissimi (e, per la prima volta nella mia vita, ammetterò di esserne uscito con i timpani provati), ma il suono è ottimo. Le chitarre e il basso non si impastano e si muovono ben definiti, Miki è in formissima e si agita e canta come se avesse ancora vent’anni, la voce di Emma fa quasi piangere per la sua purezza. La scaletta pesca un po’ da tutte le release del gruppo ed è molto coesa e ben studiata: “Etheriel” è splendida con le sue chitarre cristalline, “Ladykillers” così energica che non te l’aspetti. E “Sweetness and light” è il miglior modo di salutarci e ricordarci che abbiamo assistito a un altro miracolo shoegaze al Primavera Sound, un cerchio che si chiude dopo le apparizioni di altre leggende del genere negli anni passati.

RADIOHEAD

Arriviamo in zona un’ora e mezza prima, mentre le Savages stanno concludendo il loro solito set incendiario (non perdetele se ne avete l’occasione, fidatevi) e troviamo posto molto, molto distanti dal palco, tante sono le persone che sommergono l’area dell’Heineken Stage.
Quando i cinque fanno il loro ingresso e iniziano con “Burn the witch”, si rimane allibiti: il volume è bassissimo, si fa quasi fatica a sentire tutti gli strumenti. Fortunatamente accade l’impossibile: già  dal brano successivo, il pubblico si zittisce del tutto e la situazione diventa accettabile; sembra una cosa normale, ma chi è stato a un festival negli ultimi tempi sa quanto sia un evento straordinario. “Daydreaming” può allora sbocciare ed espandersi con la sua atmosfera sognante, risultando bellissima come su disco.
Si continua con la tracklist di “A moon spahed pool” (e “Decks dark” ci ricorda che i Radiohead hanno probabilmente il miglior suono di basso in circolazione), finchè viene interrotta da “The national anthem” e il concerto inizia a prendere un’altra piega. Muovendosi quasi equamente tra tutti i loro album post-1995, la band ci regala anche “No surprises”, “Karma police” e “Paranoid android” (durante l’encore). Fa piacere, ci mancherebbe, ma con questi episodi si inizia a percepire nell’aria un’atmosfera fastidiosa, come se stessimo partecipando a un rito fin troppo familiare, in cui l’autocompiacimento infetta tutti i presenti: una sorta di effetto Coldplay, dove sul palco sanno che il pubblico vuole i grandi pezzoni e noi scodinzoliamo ed applaudiamo soddisfatti.
In realtà  c’è spazio anche per brani meno facili (“Talk show host” e una splendida “Nude”), per la loro idea di elettronica (“Idioteque”, “Bloom”) e per momenti di pura bellezza (“Pyramid song”, “Weird fishes/Arpeggi”). Non si può certo disprezzare una scaletta con tanto bel materiale, anzi. Però il dubbio torna pressante quando partono le prime note del brano finale, l’inaspettata “Creep”. Cantiamo tutti, ma proprio tutti: non si sono mai visti tanti weirdos nello stesso posto. Ma è questo che vogliamo veramente dai Radiohead? Un bel concerto, preciso e ben suonato (a pochi decibel)? La sensazione è che manchi qualcosa, una certa dose di follia o di escursioni sopra le righe: la differenza tra uno show molto ben costruito e uno che ti fa impazzire dalla voglia di andarci. Una differenza sottile ma al tempo stesso fondamentale.

BEACH HOUSE

Fuggiamo dai Kiasmos che stasera non sembrano voler fare altro che sparare una prevedibile cassa dritta in 4/4 senza sosta e riusciamo a goderci tutto il set dei Beach House, complice un ritardo sull’ora di inizio.
Qui il problema sembra essere in qualche modo l’opposto di quello dei Radiohead: la scaletta non concede quasi mai spazio alle canzoni più apprezzate (basti pensare che i tre brani suonati da “Teen dream” non comprendevano “Zebra”, “Norway” o “Walk in the park”).
Si passa quindi un’ora tra le note del recente “Depression cherry” e qualche pezzo minore, eccezion fatta per “Myth” e “Wishes” (che richiamano gli applausi più convinti). La band è probabilmente un po’ penalizzata dagli spazi immensi del palco principale e Victoria sembra meno in forma del solito, anche se di tanto in tanto si spinge ad alzare la voce fino a certi timbri rauchi che svelano un piglio aggressivo che non conoscevamo. Il sound in generale è più energico rispetto agli album, ma anche la chiusura rumorosa con “Sparks” non ci lascia per niente convinti. Conosciamo le qualità  dei Beach House e torneremo a vederli in contesti più piccoli, dove forse riescono a trovarsi più a proprio agio.

Foto di Eric Pamies