C’era una volta il rock da stadio. Quello il cui regno parla la lingua dei Coldplay, oppure ““ volgendo lo sguardo oltre oceano ed a tempi più recenti ““ Imagine Dragons, The Script e One Republic. C’erano una volta anche i The Temper Trap, la risposta australiana in antitesi a un certo genere di rock/pop abile ad ammiccare con le onde medie radiofoniche ed quel pubblico mainstream, poco paziente e ancor meno incline alla ricerca.

C’erano, appunto, perchè di quella band sembrano essersi perse le tracce. Dai falsetti di “Sweet Disposition”, ormai relegato a un polveroso album datato 2009 (il pluridecorato “Conditions”) la band è mutata nel tempo e ““ gioco forza ““ si è conformata ad un genere che strizza l’occhiolino alle folle ma che lascia trasparire ben poca personalità . Il quintetto originale ha anche perso un pezzo, complice la dipartita del chitarrista italo-australiano Lorenzo Sillitto. Una separazione, questa, avvenuta proprio mentre la band era intenta a lavorare al materiale per il proprio terzo album.

A sette anni da un esordio “col botto” e a quattro dal suo sbiadito sequel – l’eponimo “The Temper Trap” – ecco allora “Thick As Thieves”. Tradotto in italiano, suonerebbe come “culo e camicia”. A me viene da ridere, quindi preferisco raccontarvi che in realtà  si può tradurre anche con un più elegante “amici stretti”. Un contesto in cui la voce Dougy Mandagi e i suoi soci Jonathon Aherne, Toby Dundas e Joseph Greer finiscono col perdere la maschera.

“Thick As Thieves”, infatti, inizia in pompa magna, con la title track a fare da apripista a un mondo di chitarre suonate alla The Edge, percussioni ordinate come in un diligente compitino, melodie tanto semplici quanto inconsistenti. Ciò che balza all’orecchio fin dalle prime battute è il potenziale radiofonico di ogni capitolo di questo album. “So Much Sky” è un concentrato di synth e cori; “Burn” ricorda qualcosa degli albori della band ma annega in mezzo bicchiere fatto di coretti e urla che mi riportano alla mente il Britpop degli Embrace (al netto del pianoforte). Via con i singoloni “Lost” e “Fall Together”, allora, e successivi interludi e tentativi di mieloso pop da bagnasciuga (“Alive” e “Summer’s Almost Gone”), tra le quali soltanto “Riverina” sembra avere qualcosa da dire.

E’ un trionfo di ovvietà , questo disco. L’impressione è che anzichè consentire un passo in avanti ““ in termini di maturità  artistica ““ i decori ricevuti con il seguito del loro “Conditions” (il secondo album, uscito nel 2012, raggiunse in breve tempo la vetta delle classifiche australiane) abbiano in realtà  fatto sedere sugli allori questi quattro ragazzi di Melbourne. The Temper Trap potevano trovare un posto d’onore in quella categoria di portavoce di una certa corrente indie con una reale potenzialità  di aprire qualche altro squarcio nel cielo grigio di certa piattezza musicale sul genere. Vederli così intenti a ricamare un suono non loro, a rincorrere atmosfere da folle oceaniche che solo nomi di ben altra caratura riescono a domare, crea una certa delusione.

Annunciato dalla band stessa come un ritorno alle origini dopo le critiche ricevute dal secondo lavoro in studio, di questo “Thick As Thieves” mi rimarrà  ben poco. Forse soltanto la voglia di riprendere in mano quel “Conditions” e cercare di capire ““ una volta in più ““ cosa diavolo sia successo.