è davvero difficile parlare di un album come “Folfiri o Folfox”, non solo per la complessità  del disco in sè, ma per tutto quello di cui si è detto e scritto negli ultimi mesi a proposito delle future avventure televisive di Manuel Agnelli e delle vicende strettamente personali che hanno ispirato questo nuovo disco della band milanese.
A zittire tutto questo vociare caotico che ha inondato il web basta però una canzone come “Grande”, brano posto in apertura del primo dei due cd che compongono l’opera, una di quelle tracce capaci di tramutare la confusione in silenzio e catturare l’attenzione di chiunque, zittendo ogni superflua discussione e portando l’ascoltatore direttamente dove vuole l’autore, al centro del suo dolore, a fianco del suo cuore sanguinante eppure pieno di speranza.

C’è chi ha parlato di una risposta a Sufjan Stevens e al suo “Carrie & Lowell” dello scorso anno, paragone tuttavia non del tutto azzeccato se prendiamo in considerazione brani che spostano l’attenzione verso la denuncia sociale come “Il mio popolo si fa” con le sue invettive in stile Il Teatro Degli Orrori, o che virano decisamente verso il pop, come nel caso di “Non voglio ritrovare il tuo nome”, primo singolo estratto dal disco che si preannuncia come uno dei futuri pezzi di richiamo durante i live, questo anche grazie alla sua orecchiabilità  in pieno stile “Bianca” e “Non è per sempre”.
Ciononostante il baricentro dell’album si muove tutto intorno all’argomento della malattia (“Ti cambia il sapore”, “Qualche tipo di grandezza”, la titletrack), lambendo anche il rapporto con i fans in “Fra i non viventi vivremo noi”, che con il verso …è una madre piena di attenzioni il pubblico che abbiamo noi / ma alla mamma non disobbedire mai o saranno guai dovrebbe far fischiare le orecchie a più di una persona.
è un’ atmosfera plumbea quella che avvolge queste diciotto composizioni, a tratti questa cupa nebbia è difficilmente penetrabile (le farneticazioni di “San Miguel”, lo strumentale “Cetuximab”), e solo nel finale il sole fa capolino tra di esse con la conclusiva “Se io fossi il giudice”, con la quale dopo tanta oscurità  usciamo finalmente a “riveder le stelle”.

“Folfiri o Folfox” è un lavoro strettamente personale, che rappresenta anche una sorta di reazione nei confronti della musica italiana attuale, attraverso questo disco Manuel Agnelli ha cercato (prendendosi qualche rischio) di focalizzare l’attenzione su temi di cui difficilmente si parla, che spesso vengono di proposito taciuti, mettendoci del proprio più che in precedenza e sanguinando letteralmente su una canzone come “L’odore della giacca di mio padre”, intimo spaccato famigliare raccontato da un pianoforte lancinante(a cui fanno da contrappunto le svisate elettriche di Xavier Iriondo) e da tanta commozione.

Dopo tante difficoltà  e numerose defezioni eccellenti gli Afterhours sembrano aver finalmente trovato la perfetta quadratura del cerchio, questo attraverso un disco che rappresenta una specie di nuovo inizio per una band che sembrava avere le polveri bagnate da tempo, e forse per poter ripartire c’era davvero bisogno di tradire un patto (fatto con fans, giornalisti, discografici etc), per poter poi tornare ad essere grandi.