Sam Coomes è una delle mie tardive ma graditissime “scoperte” di polistrumentisti dalle molteplici e variegate collaborazioni e progetti.
Nato in Texas nel 1964 ma cresciuto in California, e attualmente di stanza a Portland, è conosciuto soprattutto per la sua attività  nel duo Quasi con la ex moglie Janet Weiss.
“Bugger me” viene presentato come il suo primo lavoro solista, ma in realtà  già  vi era stato un antecedente nel 2003, un album di blues psichedelico, sotto il nome di Blues Goblins.

Ma venendo all’oggi, quanto all’impatto immediato che abbiamo con il primo brano e singolo, “Stride on”, grazie all’organo che accompagna la voce suadente e un po’ acida, il tutto risulta molto anni ’60, psichedelico e accattivante.
Già  si annuncia e conferma quello che Coomes stesso ha dichiarato, di aver voluto un disco di intrattenimento, ma per chi non gradisce l’intrattenimento mainstream.
In “Tough times in plastic land/ Everybody loves a war” percussioni e rumori sintetizzati aprono a qualcosa di sottomarino e onirico, accompagnano la voce che non manca di colpire per espressività , e la tastiera interviene poi a sottolinearla.
Immagini ferine e antropomorfe si affacciano nella seconda parte alla mente, show di freak sotterranei che proseguono come in marcia in un surreale corteo.

Anche se i riferimenti espliciti di Coomes sono i Beach Boys (incrociati con i Suicide, sic), “Shined it on” la trovo non solo sixties, ma beatlesiana, nel pulpito dato alla voce e particolarmente alle parole, mentre la beat box pulsa come un cuore stanco e malinconico.
“Lobotomy eggs” è cinematografica, con gli arpeggi ossessivi del synth che si estendono senza parole come su un paesaggio che chiede di essere riempito di storie.
Dopo l’intermezzo di vibrazioni sonore e verbali sospese e meditative di “The tucchus pt.1”, un nuovo avvio languido e straniato si ha con “Cruisin’ Thru/ Just like the rest” per poi mollare le briglie e arrivare alla fine ad essere il momento più rock, e quello in cui più mi sembra di vedere la preannunciata metamorfosi, se non proprio la fusione, tra Beach Boys e Suicide.
Rallenta i battiti “Fordana” mesta e solenne, la voce è allo stesso tempo forte e spezzata, urlata e sussurrata, su un tappeto sonoro denso e nebbioso. Quindi dagli spazi interiori a quelli infiniti ci proietta “Corpse rider”, estrema e impeccabile psichedelia strumentale.

Il rumorismo di passaggio di “The tucchus pt.2” fa intendere che si potrebbe andare anche molto oltre a giocare con l’assurdo sotteso (e fa venire l’acquolina per eventuali seguiti), mentre la title-track chiude l’album con un bel blues psichedelico, il ritmo senza tempo di un cuore che batte lanciato come messaggio nello spazio per un’eventuale incontro alieno, a dire questa è la specie umana adesso e tra mille anni se ancora ci sarà , in luci e ombre, materia e immaginazione, malinconie e spasso.