A Milano piove (sai che novità ); gli ombrelli si affollano per le strade, ma la tempesta è prevista per le 21:30 e arriverà  da un palco, quello dell’Alcatraz. PJ Harvey porta il suo ultimo “The Hope Six Demolition Project” dal vivo, ed è la tempesta perfetta. Potente ma controllata, furiosa e graziosa. Il live elevato ad opera d’arte. E come di fronte ad ogni opera d’arte che si rispetti, anche questo caso lo spettatore non può che rimanere a distanza e osservare. Polly Jean infatti concede una sola interazione con la platea, per presentare la sua band (nove uomini che spesso e volentieri si scambiano gli strumenti e prestano le voci per controcanti). A parte quello, due inchini e un timido sorriso. Poi è tutto show. E che show.

Dicevamo della band, impreziosita dai due italiani Enrico Gabrielli e Asso Stafana, eccezionale nel cesellare il suono complesso di “Hope Six” anche nella dimensione live. Ma la vera regina non può che essere lei, PJ: voce già  perfetta dall’incipit di “Chain of Keys” che, insieme ad una presenza scenica magnetica, con tanto di gestualità  da diva, porterà  i vari pezzi ad una dimensione superiore.

“Hope Six” viene suonato nella sua interezza, seppur senza rispettare la sequenza su disco, e trova gran riscontro in un pubblico che dimostra di averlo già  assimilato e amato al pari della precedente produzione della Harvey. I boati più roboanti, tuttavia, arrivano con i grandi classici: la indiavolata “50 ft. Queenie”, la teatrale “Down By The River” e l’intensissima “To Bring You My Love”, poste in chiusura di set canonico insieme a “River Anacostia”. Prima c’è stato anche tempo di rispolverare qualche perla dal disco capolavoro del 2011, Let England Shake: la Harvey inanella la titletrack, “The Words That Maketh Murder” e “The Glorious Land” (con quel refrain mozzafiato What is the glorious fruit of our land? Its fruit is deformed children ripetuto allo spasmo). Le inanella sapientemente in mezzo ai pezzi di Hope Six, andando a costituire un corpus unicum dedicato all’ultimo filone della sua produzione: quello per così dire giornalistico. Tra i pezzi dell’ultimo album spiccano, a volerne scegliere giusto tre, “The Ministry of Defense” (posta quasi in apertura, potentissima), “The Wheel” (intro e outro in orgia sassofonistica, con la stessa Polly allo strumento) e soprattutto “Dollar Dollar” (qui ancor più ipnotica che su disco, la voce che punzecchia l’anima in più di un’occasione).
L’encore sa di anticlimax: “The Last Living Rose” (ancora da Let England Shake) segue “All Near The Memorials of Vietnam and Lincoln” riportando un po’ di quiete e normalità . Non è un male, in realtà . Sarebbe stato probabilmente troppo uscire ancora col groppo in gola.

Fuori piove ancora. Mi ritrovo a pensare che se dovesse cogliermi una tempesta, dovrà  impegnarsi non poco per impressionarmi più di una minuta donna col sassofono su un palco.

Setlist:

Chain of Keys
The Ministry of Defence
The Community of Hope
The Orange Monkey
A Line in the Sand
Let England Shake
The Words That Maketh Murder
The Glorious Land
Medicinals
When Under Ether
Dollar, Dollar
The Devil
The Wheel
The Ministry of Social Affairs
50ft Queenie
Down by the Water
To Bring You My Love
River Anacostia

Encore:

Near the Memorials to Vietnam and Lincoln
The Last Living Rose

Credit Photo: Maria Mochnacz