Il solito bellissimo album di Pete Doherty. Non ci sarebbe nient’altro da aggiungere.

“Hamburg Demonstrations” è l’ennesima conferma che di Pete Doherty si è sempre parlato troppo e male, prestando maggiormente attenzione agli alti e bassi della sua vita, senza mai rendersi conto di quanto, -malgrado una serie infinita di sciagurate vicende- questi alti e bassi non si siano mai presentati nel corso della sua carriera musicale. Probabilmente si potrebbe ammettere esattamente l’opposto, il percorso artistico di questo autore è anzi caratterizzato da una profonda coerenza di fondo, che sia da solo, con i Babyshambles o con i Libertines, Pete Doherty ha ormai segnato un solco nella storia della musica rock inglese e mondiale.

Insomma, a Pete Doherty è riuscita l’impresa che risulta più ardua nella vita di ogni rockstar, invecchiare. O meglio , invecchiare bene, con decenza, sebbene il grigio dei suoi capelli ed il giallo dei suoi denti sembrino volerci smentire. Una bottiglia di buon vino lasciata per anni in cantina verrà  sicuramente ricoperta di polvere, ma il suo contenuto rimarrà  inalterato, nei migliore dei casi acquisterà  persino qualche nuova sfumatura. Quel che sto cercando di dirvi è che Pete Doherty, musicalmente parlando, non hai mai dovuto mettersi in discussione, ma questo non è significato un appiattimento monocorde dei suoi album. In fondo le linee che delineano le differenze tra i suo varie progetti non sono mai state così marcata, la militanza in diverse band più che un impellenza creativa sembra una vera e propria necessità  fisica, la protesi dell’ego musicale di un artista sproporzionato a cui i proprio compagni non riescono a reggere i ritmi di vita, per non dire il genio. Ecco forse spiegato il motivo del suo amore per Amy Winehouse alla quale, in quest’album, dedica persino una canzone.

Pete Doherty, nella sua veste solista, sembra dare maggiormente risalto a quella componente crooner( per dirla all’inglese), chanteur (alla francese) che, per quanto meno preponderante, lo aveva sempre contraddistinto e che aveva portato alla ribalta solamente nel 2009 con Grace/Wastelands. La doppia forma con cui “I Don’t Love Anyone(but You Are Not Anyone)” è presentata su quest’album pare aprire la porte ad una svolta del tutto lirica, da camera, ma in realtà  non è altro che la continuazione di un percorso già  intrapreso in “Sequel to the Prequel” e “Anthems For Doomed Youth”, rispettivamente gli ultimi album Babyshambles e Libertines.

La vena punk non è mai scomparsa ,anche negli ultimi lavori, si è semplicemente sopita, vuoi per il passare degli anni vuoi per gli effetti ormai riscontrabili del rehab. Questa nuova attitudine ha inevitabilmente comportato dei mutamenti stilistici, Pete sembra prestare più attenzione alla pronuncia delle parole, sbiascica e sbraita di meno ma questo non vuol dire che abbia imparato a cantare, sopperisce alle proprie mancanze trasudando profondità  emotiva, il poeta di Hexham è iscritto a quel filone d’autori alla Leonard Cohen ai quali la vita, più che le corde vocali, sembrano conferire credibilità  al tono.

Pete Doherty è questo, prendere o lasciare, con tutti i difetti e le controversie che la sua figura sembra costantemente doversi trascinare. Se George Best non avesse dissipato gran parte del suo talento in alcol e donne forse, al giorno d’oggi, parleremo di un calciatore migliore, ma sicuramente non staremo parlando di George Best. Il genio, nel calcio, nella musica e in qualsiasi altra forme espressiva tal volta si manifesta con un’inaspettata violenza autodistruttiva.

E non permettetevi di ridurre banalmente questa questione alla droga, che Pete Doherty soffra perchè si droga o che si droghi perchè soffra a noi è indifferente. Prima di Pete Doherty hanno sofferto Kurt Cobain, Jim Morrison e, per l’appunto, Amy Winehouse, ancora prima ,ma in maniera analoga, Baudelaire e tanti altri autori, seppur , a quei tempi, non esistessero ancora le chitarre elettriche. L’Infelicità  generata dall’insoddisfazione, il sentimento costante di incompiutezza, sembrano proprio essere il primo motore di un arte veramente compiuta, alta. Il destino di questi ultimi grandi divi della musica oscillerà  sempre tra il tipico edonismo rock’ n’ roll e la mestissima malinconia, lo spleen, l’accidia poetica. I soliti luoghi comuni che solo i grandi interpreti sanno indossare.

Se ogni dramma umano si può generalmente esprimere con la metafora della pesantezza quello di Pete Doherty è esattamente l’opposto, un dramma delle leggerezza. L’insostenibile leggerezza dell’essere, parafrasando Kundera, il fardello della vita, che forse solo chi ha avuto modo di salvarsi più volte da una morte per overdose , di rischiare l’ergastolo per omicidio o la fortuna di rompere un fidanzamento con Kate Moss può veramente capire. I dischi di Pete Doherty rispecchiamo in maniera praticamente totale il loro autore e non potranno mai tradirci perchè è la vita stessa del loro autore ad essere arte.

Credit Foto: Brocco from Madriz, Spain / CC BY-SA