La storia di Nathan Fake ha sempre parlato di musica di connotazioni eteree, mai banale e facilmente etichettabile, persino per il mercato della musica elettronica di nicchia, quella che non pensa solo a “far ballare”. Il suo stile bucolico, la sua braindance dal marchio emozionale e complesso allo stesso tempo, lo hanno spedito presto in quella fascia di artisti “colti”, che nelle sfumature più impervie e di complicato accesso trovano una dimensione propria. Ciò gli aveva permesso di diventare un volto di punta della Border Community, l’etichetta del suo mentore – e amico – James Holden, che con “Drowning In A Sea Of Love”, nel lontano 2005, aprì di fatto un nuovo ciclo dell’IDM, puntando a trame futuristiche di nuova generazione. Il successivo step, tra remix ai Radiohead e ancora due album ispirati dalla stessa luce, è stato consacrarsi con lo stesso stile da outsider, senza infliggere colpi sinistri, dritto per la sua strada. Tra alti e bassi di creatività  lungo il percorso, il suo viatico ha rappresentato più o meno sempre un’affascinante storia.

Il motivo che lo ha spinto a tornare (stavolta sull’acclamata Ninja Tune), dopo un travagliato periodo di vita privata, è stata la ricerca di una trama più coinvolgente, di uno status che si era conquistato con saggezza ed estro proprio, ma che necessitava per Fake un ricalcolo del percorso. “Providence” arriva infatti dopo parecchi anni di digiuno, condensati in maniera visibile nei brani che lo compongono, colmi di ritmiche estenuanti, landscape dalle tinte cupe e mistiche, sensazioni nuove. Tutto ciò pare abbia fatto svanire la continuità  con la sua techno organica e sentimentale: l’istinto artistico è parso quello di cercare volutamente una cornice opposta, molto – probabilmente troppo – d’effetto energico e netto. Il risultato è una piega ripida, disconnessa da una struttura solida e verosimile: la Korg Prophecy, che è la principale valvola di suoni che l’album sprigiona, diventa quasi una citazione di sè stessa, chiudendosi in vicoli ciechi che l’artista di Norfolk raramente ha palesato in passato. In precedenza votato a una scientifica unione di sonorità  visionarie, astratte, libere di espandersi, qui gioca col fuoco dei sentimenti meno dolci, e c’è spazio per un via-vai di voli pindarici estremi.

La title-track “PROVIDENCE” non è profetica di scenari coerenti al suo imperativo, limite che i brani volutamente nominati in caps lock sembrano palesare per il resto della durata (“REMAIN”, più avanti, sarà  sulla stessa falsa riga). Sono presenti degli excursus degni di nota, come in “HoursDaysMonthsSeasons”, che rincara la dose di rimpianti, rispetto l’astratta vena ai limiti tra industrial e drone music delle tracce in scaletta. “DEGREELESSNESS” con Prurient e “RVK” con Raphalle Standell-Preston (della band canadese Braids), sono le due tracce vocali che marcano la virata verso il cambiamento, un viatico forse sì, sostanzioso e studiato, ma che non sembra incarnare idee destinate ad avere successo.

Il rammarico, specie per chi conosce Nathan Fake dagli esordi, è sicuramente il timing con cui questa release vede la luce: una provvidenza, quella auspicata dal titolo, che manca dei toni accesi, limpidi e ispirati che avevano caratterizzato la sua storia, apparsa nel momento in cui ce n’era più bisogno, ma sotto vesti decisamente incerte. La speranza è che tutte le emozioni che il suo linguaggio erano in grado di dare non si siano sopite, che il vortice di sperimentazioni acute – ma circoscritte a pochi, confusi elementi – sia soltanto un passaggio a vuoto.