E’ tornato il menestrello d’America. Benjamin Booker, tre anni dopo l’esordio omonimo di cui hanno parlato un po’ tutti oltreoceano, raddoppia con “Witness” album dalla genesi sofferta anche a causa di una notorietà  a cui il ragazzo della Virginia ha faticato ad adattarsi. E per trovare l’ispirazione giusta ha dovuto spostarsi più a sud, fino a Città  Del Messico, lontano da quegli Stati non più così Uniti che stentava a riconoscere. Lontano dalle breaking e false news e dall’orrore delle infinite morti di afroamericani, un’epidemia a cui Booker non poteva restare indifferente. Un periodo di riflessione che in realtà  era una fuga da tutto e da tutti come Benjamin stesso ha ammesso candidamente, fuga che stranamente l’ha portato a riscoprire le radici.

Il significato di questo album numero due è tutto nella copertina: lui, uno specchio e quella parola, “Witness”, scritta al contrario. L’importanza di essere testimoni, di osservare ma anche di partecipare e la frustrazione di non riuscire a farlo. Musicalmente Benjamin Booker riscopre il blues più classico, il soul e il gospel citando James Baldwin e Mahalia Jackson, collaborando con una Mavis Staples di ritorno dal magico mondo dei Gorillaz e sporcandosi appena le mani col rock di “Right On You” e “Off The Ground”. La voce è più roca, sofferente, vissuta, maltrattata che mai, come se dietro ci fosse tutta una vita spesa a ricorrere sogni. Una voce che non tradisce la vera età  di Booker che con i suoi ventisette anni somiglia un po’ a un altro Benjamin (Clementine) anche lui anima più saggia di quanto l’anagrafe non dica.

La crisi di Benjamin Booker è anche la crisi dell’America, una crisi confusa che viene riassunta in una frase di “Believe”: “I Just want to believe in something i don’t care if right or wrong“. E sullo stesso concetto torna poco dopo “All Was Well” che col suo laconico Made excuses all my life until I just believed it / Believed that all was well chiude un disco che è soprattutto un modo per fare i conti con se stessi e col mondo. Viscerale, intenso, grintoso, magari anche un po’ ripetitivo ma genuino su questo non c’è dubbio.