Trovare etichette o definizioni per la musica dei Black Lips non è mai stato facile. Arrivati all’ottavo album in diciotto anni di carriera non ci riescono più neanche loro. Forse parte da qui la scelta di intitolare il nuovo disco “Satan’s Graffiti or God’s Art?”: una domanda che lascia all’ascoltatore libertà  di interpretazione o una sorta di richiesta di aiuto da parte di una band in crisi d’identità ? Probabilmente nessuna delle due cose: dietro “Satan’s Graffiti or God’s Art?” c’è solo la voglia di continuare a spiazzare e provocare. La tradizionale maschera garage/psych-rock, scanzonata e ironica come sempre, cela il lavoro più ambizioso e complesso realizzato fino a oggi dal quintetto di Atlanta.

I punti di riferimento sono i Beatles psichedelici ed esoterici di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club” e “Magical Mystery Tour”: non a caso alla produzione c’è Sean Lennon, con la madre Yoko Ono ospite (stranamente non ingombrante) su alcuni brani. I quattro baronetti di Liverpool vengono esplicitamente omaggiati con una fragorosa e sgraziata cover di “It Won’t Be Long”, classico del 1963 a firma Lennon ““ McCartney. Le atmosfere e i suoni sono vintage e rètro come nei precedenti sette dischi; questa volta però i Black Lips provano a spingersi davvero oltre, approdando in lidi non ancora esplorati e cercando di districarsi dai clichè del genere. Arrivano addirittura a giocare con la propria ambizione, dando a “Satan’s Graffiti or God’s Art?” la forma di un concept album o di un’opera rock, con tanto di preludio (“Overture: Sunday Mourning”), epilogo (“Finale: Sunday Mourning”) e ben tre interludi: il garage-punk-blues da tre minuti e mezzo di “Interlude: Got Me All Alone”, lo sconclusionato blues afro di “Interlude: Bongos Baby” e la jam acida e allucinata di “Interlude: E’lektric Spider Webz”.

Nonostante questa apparente coesione, ogni brano ha una propria personalità  e sembra voler raccontare una storia diversa rispetto al precedente: la furiosa cavalcata western di “Occidental Front”, il folk acido e distorto di “Rebel Intuition” e il proto-punk di “Squatting in Heaven” hanno poco in comune, se non il desiderio di confondere passato, presente e futuro in un unico grande schianto contro un muro inscalfibile fatto di chitarre affilate come rasoi e feedback assordanti. C’è spazio anche per il lato più melodico e leggero dei Black Lips: questo emerge in episodi come “Crystal Night”, una ballata dal sapore sixties (con tanto di coretti alla Chipmunks) che potrebbe essere stata scritta da un Roy Orbison sotto l’effetto di LSD; “Wayne”, midtempo sognante arricchito dagli interventi “hawaiani” della lap steel guitar; e “Loser’s Lament”, un country blues acustico sgangherato e toccante allo stesso tempo, così come solo le migliori canzoni di Tom Waits riescono ad essere.

Le diciotto canzoni di “Satan’s Graffiti or God’s Art?” sono ambigue come il titolo del disco: si muovono su due binari paralleli, tra ruvidezza garage e raffinatezza pop. Sta all’ascoltatore riuscire a inquadrare la musica dei Black Lips e decidere quali siano gli aspetti più interessanti di questo convincente e divertente “patchwork” psych-rock.