Proviamo a chiudere gli occhi ed ascoltare questo nuovo album dei Ride, che esce a 21 anni di distanza dall’ultimo e decadente “Tarantula”
Un’introduzione delicata ci porta nell’atmosfera tipicamente shoegazer del primo brano “Lannoy Point”, con un ritmo più veloce di quello che potesse sembrare all’inizio. La domanda che sovviene è: in che anno siamo? Che fine ha fatto tutto quello che c’era in mezzo? Tutto sembra tornato al proprio posto, agli inizi, al sound dell’album “Nowhere”, prima ancora di “Going Blank Again”. Quella chitarra “aperta” senza troppe distorsioni ci accompagna anche nel secondo brano, sempre veloce, “Charm Assault”.
Il tempo rimane elevato anche nella successiva “All I Want” e si comincia davvero a comprendere appieno il tentativo del quartetto di Oxford di tornare a ritroso nel tempo come se nulla fosse stato, per riconquistare quel pubblico di nostalgici che li hanno amati fin dagli esordi, senza troppo curarsi di piacere a chi all’epoca non era ancora nato.

Poi l’album rallenta (“Home Is A Feeling”) ma non cambia imprinting, sprofondando in una spirale slow con la traccia che da nome all’album, “Weather Diaries”. Qui siamo all’apoteosi shoegazer!


I’m unsettled by the weather
It’s getting stranger
Should it be this good right now?
Are we in some kind of danger?
Is this atmosphere just me-
Or is the sky too blue?

Si riflette sui cambiamenti climatici e le conseguenze sulle nostre vite. Quel senso di insicurezza che prevale sulla spensieratezza dei tempi passati. Ci facciamo troppe domande? Forse si. Questo sembra essere il messaggio di Marc Gardner e Andy Bell, i due autori.

Il brano confluisce in un finalone con tutti gli strumenti a volume altissimo che poi svaniscono, per un totale di 7 minuti, scavallando addirittura nel brano successivo, “Rocket Symphony” un brano corale con cambi di ritmo e decelerazioni improvvise. La cosa comincia a convincere, si capisce il disegno dell’album, il progetto del ritorno dei Ride.
Con “Lateral Alice” si riparte a tutta velocità , ritmo che cala solo leggermente con la successiva “Cali” che piace fin dal primo giro. Poi un trip strumentale, psichedelico ed inatteso, “Integration Tape” ci porta nella delicata e soft “Impermanence” preambolo della conclusione “White Sands”, sempre lenta e coinvolgente ballata psichedelica.

Adesso possiamo riaprire gli occhi e trarre le conclusioni.
Del trittico di grandi ritorni che chiamerei “Shoegazer Strikes Back” composto da Slowdive, The Jesus And Mary Chain e Ride, quest’album se vogliamo è quello più estremo. Non cerca affatto di piacere a chi 25 anni fa non c’era, mira piuttosto a proseguire un cammino che gli stessi Gardner, Bell, Colbert e Queralt avevano abbandonato cercando di far piacere il loro sound ad un pubblico più vasto. Come se il sound della “scena che celebrava se stessa” fosse improvvisamente maturato da solo, come un frutto giù dall’albero, senza però perderne il sapore originario.
Un orologio rotto, che segna l’ora esatta due volte al giorno, come il celebre campionamento di “Cool Your Boots””….
Se proprio devo trovare qualcosa che non va devo dire che mi mancano un po’ le bizzarrie della batteria di Loz Colbert, qui più educato e quelle chitarre acustiche che ogni tanto i Ride usavano.
Tecnicamente l’album non ha nulla da accepire, prodotto da quel mago di Erol Alkan, con il tocco finale della leggenda Alan Moulder che già  ha reso da mitologia il sound di “Going Blank Again”.

Ma il movimento dei “guardatori di scarpe” è tornato in grande spolvero in questa prima metà  dell’anno e credo che se ne parlerà  ancora per un po’.