La raccolta tratta un tempo lungo 30 anni (scandito da 15 album in studio) sconvolto, mischiato e sovrapposto, inizia tuffandosi nel bel mezzo, con “Loverman” singolo del 1994, dall’ottavo album “Let love in”, quasi una presentazione e un invito ad entrare in un mondo di passioni anche quando contraddittorie e perniciose.
Già  il brano risulta tra l’altro cupo e selvaggio e non certo classicamente romantico.
Ben si aggancia “Tupelo” – tribale, percussiva, annunciata e disannunciata come un temporale – pescata a ritroso dal secondo album “The fistborn is dead” (1985).
Alleggerisce l’atmosfera “Deanna” – più ballabile e festaiola – dal quinto album “Tender prey” del 1988 che esplora dimensioni più garage e blues rispetto agli altri lavori, catalogati in genere come più decisamente post-punk;
Si ritorna alle origini con “From here to eternity” – sincopata su un binario ritmico ossessivo con incursioni noise – dall’omonimo primo album molto rappresentativo anche per le ispirazioni cinematografico-letterarie e inequivocabilmente post punk e sperimentale.

Il viaggio prosegue, talvolta cullati da ballate come la leggendaria “The weeping song” o l’ultra-melodica “People ain’t no good”, o la romantica ma dal sapore moderno “Straight to you”; suona invece antico ma affascinante l’intreccio delle chitarre in “Dig, Lazarus, dig!” – dall’omonimo 14 ° album del 2008.

Con la recente (da “Push the Sky Away” del 2013) “Higgs Boson Blues” ci si addentra anche in territori da blues apocalittico, vagando con il pensiero tra deserti di rocce in cui il vento si incanala a urlare.
Come a ribadire la circolarità  dei rimandi temporali si fa infine un nuovo tuffo all’indietro nel 1996 con “Murder Ballads” da cui è tratta “Where the wild roses grow”, una romantica ballata folk in cui la voce di Cave duetta con quella zuccherosa di kylie Minogue, che a sua volta si intreccia col violino, che dialoga col piano, in un potente contrasto tra la delicatezza dei suoni e la violenza dei fatti narrati.
Da rilevare che dello stesso album è il brano “Lovely Creature” – racconto che parla della possibilità  di trovare e perdere l’amore attraverso la morte, brano che non è stato però incluso nella raccolta, ma il cui il significato si annida forse in ogni angolo di essa.

Il secondo CD si apre con “Into my arms” – dichiarazione all’amore terreno e vissuto – da “The boatman’s call” (1997) – della quale è notevole anche il video con cui è stata lanciata – e la riflessiva “Love letter”- che sembra di vederla questa lettera sulla scrivania con la luce che illumina i pulviscoli di polvere cadendoci sopra (e sarà  stata poi spedita?) – da “No more shall we part” del 2001.
Lo swing trascinante di “Red right hand” ci fa tornare al 1994 (da “Let Love in”), scura e maliziosa e con riferimenti letterari a “Paradiso perduto” di Milton, è diventata una firma di Cave, eseguita quasi in tutti i live, e ci introduce con l’immaginazione in vicoli metropolitani scuri e trasudanti imprevisti, vicoli che come un buon viatico ci portano fino a “The mercy seat” col suo incalzare tra il punk e il marziale, corale, con qualcosa di folk nelle incursioni dei violini sopra i tamburi.

Si va verso lo spiritual con “O children” nell’incedere del solista accompagnato da delicati violini e morbida base ritmica, contrappuntato dal piano e sopinto dalle ali del coro – “da Abbattoir blues/the lyre of Orpheus” – tredicesimo album del 2004.
Si prosegue con “The ship song” – intramontabile ed irresistibilmente seduttiva, da “Live seeds” del 1993, quindi si torna a graffiare il terreno con “Stranger than kindness”, tagliente e corrosiva, da “You funeral…my trial” del 1986,
“Jubilee street” e la sua narratività  che riesce ad essere allo stesso tempo minimalista ed espresssionisa dal recente “Push the sky away”.
Dopo il country-rock di “Nature boy” arriva, eterea come sospesa su gocce di pioggia,
“We no who U R” – ancora da “Push the sky away” del 2013.
Ma la conclusione è affidata alla cruda, cupa, esasperata “Stagger lee” – tornando al 1996 e all’insuperabile “Murder Ballads”, secondo il mio personalissimo parere , e al netto dell’impossibilità  di scegliere un singolo passaggio di una vita artistica così ricca.

Il disco nel suo insieme suona magnificamente, la voce è profondissima e avvolgente e per ogni strumento sembra di potersi immaginare dentro la sua cassa armonica, nelle cellule della sua materia.

L’immersione profonda in una musica dalle molteplici e sempre rinnovate radici e dalle possenti e longeve ali, mi sembra riuscita con sicurezza e, a suo modo, con semplicità  e schiettezza.

Le “lovely creatures” per me sono sì queste canzoni che attraversano il tempo mantenendo intatto il loro fascino, ma anche un invito ad ascoltare quello che ci fanno risuonare dentro, di tenero, di umano, di animale, di arrabbiato, un invito a vedere le creature amabili come nasciamo e che forse sono ancora vive più o meno nascostamente nel nostro nucleo più profondo.

Credit Foto: Steve Parke