You might miss me when I’m gone
Così cantano i Dream Syndicate in “Filter Me Through You”, traccia di apertura del loro nuovo disco.
E, forse senza che neanche ce ne accorgessimo, effettivamente ci sono mancati, e siamo felici di rivederli.
Dopo quasi trent’anni di separazione (e una carriera solista del cantante), la band californiana torna con il suo quinto album, che si e ci pone un grande interrogativo: “How Did I Find Myself Here?”.
I cinque anni di concerti, cominciati nel 2012, ci avevano fatto annusare un possibile coming back del quartetto capitanato da Steve Wynn con il bassista Mark Walton, il batterista Dennis Duck e il chitarrista Jason Victor.
“How Did I Find Myself Here?” è una grande reuinion che riporta alle origini (a parte Victor, tutti gli altri provengono dalla formazione originaria anni 80), un vero e proprio ritorno alle origini, a quel suono chitarristico e rock acido che li ha resi di una delle band cardine di quel Paisley Underground nato a Los Angeles capace di mischiare il sound psichedelico più classico al punk rock.
I Dream Syndicate hanno fatto palestra e scuola al movimento fin dall’ elettrico esordio con “The Days Of Wine and Roses” (1982) e poi con “Medicine Show” (1984) , e ora vedono i propri frutti raccolti, o perlomeno innestati, in band che vanno dai Pearl Jam e gli Screaming Trees ai Wilco o Grandaddy.

Con questo disco, Steve Wynn e compagni ripercorrono la propria storia arrivando fino all’oggi. Un oggi che non vuole più sorprendere, ma confermare e rievocare.
La voce,le chitarre e l’energia: tutto gira, come sempre, lì intorno. Basta pensare agli intrecci di corde in “Glide” o alle sferzate di “80 West” o l’espressività  ipnotica di “Kendra’s dream”, per arrivare al trionfo di stile della title track, che nei suoi undici minuti regala le più svariate jam di chitarra intramezzandole con sezioni cantate.
I may never get higher, I don’t have come down, I just glide, cantano proprio in “Glide”: potrei non arrivare mai più in alto, ma non devo scendere, solo planare.
Che oggi è un po’ la loro, volente o nolente, filosofia di musica e azione.
Una presa di coscienza del fatto che il tempo è passato: il tempo della cresta dell’onda, dell’ergersi a icone e a continui produttori di novità . E quindi si dà  il passo all’esperienza musicale, alla capacità  di scrittura, alle armonie note e . E quello che ne esce è un disco che non sente (troppo) il peso degli anni e ributta le orecchie nel miglior rock americano, un prodotto che convince, coerente e ben elaborato.

Credit Foto: Juan Carlos Quindos de la Fuente