è quasi l’una del mattino. C’è voluta una giornata intera per processare la notizia di stamattina. I Wild Beasts non ci sono più. Voglio dire, i quattro inglesi sono ancora vivi, Dio ce ne scampi. Ma insomma, pare che non avremo più un disco del gruppo capitanato da Hayden Thorpe e Tom Fleming. Non mentirò, mi sento davvero triste. Si dice non essere triste che sia finita, sii felice che sia accaduto. Ma dove sta scritto che non possa essere entrambe le cose?

In quest’epoca di consumo compulsivo di musica, in cui viviamo di playlist on-the-go e cazzate usa e getta, quando un punto fermo se ne va le cose, per chi ha nelle cuffie delle amiche fidatissime, si fanno relativamente complicate. E i Wild Beasts erano un punto fermo. Nominati per il Mercury Prize nel col secondo disco “Two Dancers”, due volte in top 10 inglese con gli ultimi due lavori “Present Tense” e “Boy King” e autori del teatrale esordio “Limbo, Panto” e del sublime “Smother”, i quattro di Kendal si sono mantenuti su standard qualitativi altissimi nel panorama indie pop-rock del nostro tempo, andando a toccare, no anzi, sbrandellare le corde dei nostri cuori – del mio, almeno – a forza di falsetti, crescendi e testi infarciti di citazioni letterarie e tanta, tanta sensualità . Una delle battute che a distanza di anni mi fa ancora sbellicare appartiene ad un mio amico, il quale alla notizia dell’uscita di “Present Tense” scrisse su Facebook sono già  nudo.

E forse fanno bene a sciogliersi. Probabilmente non avrebbe senso andare avanti se la spinta creativa si è esaurita. Allo stesso tempo è difficile non incazzarsi per la persistenza di gruppi che hanno ormai poco da dire da anni. Ma tant’è: è tempo di eulogi. E allora grazie Wild Beasts.

Grazie per avermi tenuto compagnia durante i miei anni di college in Nebraska. Ero contentissimo quando mi ritirai in dormitorio con il doppio di “Present Tense” da Lefty’s Records sulla 27esima Strada per recensirlo al meglio proprio qui. Quando ascoltavo i versi Don’t confuse me for someone who gives a fuck venivo rincuorato del fatto che qualcuno avesse smascherato molti dei cazzoni e cazzone che mi circondavano alle feste.

Grazie per essere stata la colonna sonora di uno dei viaggi più belli e introspettivi della mia giovane esistenza, Irlanda 2016. Nei viaggi in bus tra Limerick e Dublino ascoltavo “Boy King” per prepararmi a scriverne su queste pagine e ripassavo il catalogo, spesso mettendo a ripetizione “Loop the Loop”, cercando di stilare bilanci ed esorcizzare fantasmi:

Forget now
How many must I forget now?
How many must I forget now?
How many must I forget?
Remember
As many as I remember
As many as I remember
I must forget
Regret now
How many do I regret now?
How many do I regret now?
How many do I regret?
Slender
Oh, there are some but they’re slender
Oh, there are some but they’re slender
Sums I regret.

Grazie perchè in quel viaggio ho capito di essere innamorato di una ragazza conosciuta in Nebraska mentre ascoltavo “Mecca” alla quale non l’ho ancora confessato e chissà  se mai lo confesserò, “‘chè la Belfast è lontana, troppo lontana. è come la vostra musica: è dolce e sinuosa ma fa male e accende fuochi. è come “Empty Nest”. è come “Plaything”. è come “Dreamliner”.
Grazie per aver dimostrato che è possibile coniugare vampate testosteroniche e cerebralità  nel giro di tre o quattro minuti.

A costo di suonare cheesy e clichè, mentre finisco di scrivere queste righe ascolto “End Come Too Soon”. It’s too soon, it’s too soon, it’s too soon, it’s too soon, it’s too soon. Cazzo se è troppo presto.

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Bene. Chiedo scusa se con questo ho contagiato qualcuno di diabete (in tal caso, sperate che i National non si sciolgano mai, altrimenti sarebbero davvero cazzi). Giusto per chiudere in bellezza, di seguito una delle performance più mozzafiato che mi sia capitato di trovare in giro: una “Wanderlust” con Tom Fleming alle prese con un organo a 7866 canne.