Chissà  se Ian Brown, leader degli Stone Roses, varcando la soglia di Strageways, il carcere di massima sicurezza di Manchester, abbia canticchiato “Girlfriend in a Coma” o qualche altro brano dell’album degli Smiths.

Di certo è singolare la scelta del quartetto inglese di intitolare in questo modo il loro quarto e ultimo album in studio, forse la volontà  di sorprendere dato che c’era molta pressione intorno a loro dopo album memorabili come “The Smiths”, “The Queen Is Dead” e “Meat Is Murder”.
All’epoca seguivo molto le vicende degli Smiths, non c’era molto altro per gli appassionati di musica alternativa.
Malgrado il clima di grande attesa, la band è entrata negli studi Wool Hall di Bath con grande convinzione e serenità , cosa che traspare dal sound della band: un deciso allontanamento dal clique Jingle-Jangle che ti rimane in testa, un suono più elaborato con intersezioni inusuali di strumenti (addirittura Morrissey suona il piano in “Death Of A Disco Dancer”), archi, fiati e persino una drum-machine.

Ricordo il primo ascolto con un senso di grande delusione: mancava totalmente una hit se non forse la marcetta “Girlfriend In A Coma”, i testi erano particolarmente cupi ed a tratti molto difficili da capire per i non madrelingua.
Ma questo disco “strano” ad ogni giro rivelava una nuova sfumatura, facendosi apprezzare sempre più ad ogni ascolto.
Ecco che allora che il crescente lamento del Moz in “Last Night I Dreamed That Somebody Loved Me” avvolto in una texture di chitarre ti colpisce nel profondo perchè assume il doppio struggente significato dell’ennesimo fallimento amoroso o del deteriorarsi del suo connubio artistico con Johnny Marr.
Poi il brano che tutti avremmo potuto scrivere, “Unhappy Birthday”, la storia del sedotto e abbandonato, con quel testo nel quale è facile riconoscersi in un qualsiasi frangente della nostra vita:

And if you should die
I may feel slightly sad
But I won’t cry!

Poi la rabbia verso il business discografico di “Paint A Vulgar Picture”, la storia di una (dead)star che diventa famosa dopo morte. Come non condividerla.
La sottile vena malinconica dell’album finisce però per lasciare un gusto amaro sulla lingua: sarà  che alla fine si tratta del canto del cigno della band, destinati a sciogliersi poco dopo. O forse i connotati decadenti di titoli, testi e citazioni varie che si contrappongono a melodie brillanti e qualche bizzarria fonica. Quel senso di delusione iniziale non sono mai riuscito a levarmelo, malgrado gli innumerevoli ascolti, compresi quelli per scrivere il presente pezzo.

“Strangeways Here We Come” è come se fosse l’ultima puntata di una serie televisiva, che ti chiedi sempre se ci sarà  una prossima stagione o se sia davvero la fine di tutto.
Il dubbio rimane, anche a 30 anni di distanza.

THE SMITHS ““ “STRANGEWAYS, HERE WE COME”³
Data di pubblicazione: 28 settembre 1987
Tracce: 10
Durata: 36:37
Etichetta: Rough Trade, Sire
Produttori: Johnny Marr, Morrissey, Stephen Street

Tracklist:
1. A Rush and a Push and the Land Is Ours
2. I Started Something I Couldn’t Finish
3. Death of a Disco Dancer
4. Girlfriend in a Coma
5. Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before
6. Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me
7. Unhappy Birthday
8. Paint a Vulgar Picture
9. Death at One’s Elbow
10. I Won’t Share You