Dopo 6 anni i Primus tornano con un album in studio, e con la formazione originale che non si combinava più dal 1995. Lo spunto è un libro di racconti che Les Claypool leggeva molti anni fa ai suoi figli, “The Rainbow Goblins”, di un autore dal nome stesso fantasioso e misterioso, Ul De Rico, ricco di un immaginario dark e a forti contrasti di colori e tenebre.
La storia è messa in moto dall’arrivo nella pacifica Valle dell’Arcobaleno di sette Goblin, uno per ognuno dei colori dell’arcobleno, dei quali si nutrono avidamente “desaturandone” il mondo e lasciandolo griglio e spento, e verso la cui ingordigia l’unica salvezza finisce per trovarsi nell’unità  degli abitanti della valle.

La scena si apre con “The valley” con un distillarsi di delicati arpeggi pizzicati di sapore quasi antico, forse senza tempo come sono i periodi di pace dove nessun dramma ancora accelera la storia, sui quali arpeggi si appoggia l’evocativa voce narrante; si inserisce poi un violoncello come un personaggio in arrivo, quindi una sezione ritmica tonda e saltellante, ricca di risonanze.
L’impatto emotivo e visionario è forte. Gli strumenti che mano a mano si aggiungono dialogano tra loro come fossero gli abitanti della valle, che si incontrano si scambiano notizie e commenti.

Con “The Seven” il tutto accelera e si fa più pesante, urgente, denso, come una valanga dilagano i sette goblin affamati, la loro ansia divorante e feroce meravigliosamente interpretata dalla voce e dagli intrecci e cambi di tempo strumentali che qui vanno (con mio grande piacere) verso il math-rock.
Tornano ad accoglierci arpeggi morbidi e armoniosi in “The Treck”, ma subito si spengono e vengono travolti quando si addensa un’atmosfera cupa come un’annuncio di tempesta elettrica, dove la chitarra e poi il basso trascinano il racconto della voce grottesca che inacidisce e stravolge i tempi e le melodie. Brano complesso che sembra quasi un intrecciarsi di tre pezzi diversi, con cori e lunghe parti strumentali, con stop and go, cambi di tempi, ma il gioco è più crudele che divertito, ossessivo e cupo nel finale.

Il culmine dell’accelerazione sembra raggiungersi in “The Scheme”, narrativo nella voce, fisico per come ti colpisce il rotolare slappato del basso, emotivo per tutto il movimento avventuroso quasi epico, a colpi di scena, che gli altri strumenti ci costruiscono intorno, con una sezione ritmica che non dà  tregua, dipingendo quelle che sembrano cupe nubi di allarme, corse, aggressioni e battaglie e continui rivolgimenti.
Arriva “The Dream” a scolvolgerci ancora di più l’emotività  con la sua apertura noise, in una calma apparente incuneata tra prima e dopo la tempesta, ma ricca di ombre e inquietudine, sembra di ascoltare canti di animali notturni su ritmi rituali in una foresta di pura energia. Solo verso la fine tende ad accelerare, per chiudere nuovamente con rumorismi e stridii, come un sogno che ti porti appresso da sveglio e continua a scavarti dentro.

Un po’ didascalicamnte, “The Storm” si annuncia con un tuono, sembra partire col freno tirato, ma l’attesa ha l’effetto di un accavallarsi di folate di elettricità .
Prosegue come essenzialmente percussiva – anche gli strumenti a corda sembrano essere percussivi, con cambi tempi e voce “narrante” di stampo progressive,
solo nell’ultimissima parte accelerano come a mostrare la coda roteante polverosa e spaventosa della tempesta, che però annuncia anche la sua fine, fino a chiudere con un finale da giostra, un carosello zoppicante.

La giostra sembra continuare a girare scombinata per qualche giro in “The Ends?” e finire con un arpeggio acustico, ci abbandona, abbandonata essa stessa via via dall’energia e dal movimento.
Il disco è quindi un concept fatto a capitoli, solo sette tracce ma lunghe e ricche di struttura e contenuto, ciascuna un viaggio visionario, un capitolo di un’epopea eroica, una ri-creazione del mondo, una riappropriazione più grande di quanto si è rischiato di perdere e difeso.
Ad un ascolto ripetuto mantiene anzi accresce il suo fascino, dimostrando profondità  e di essere tutt’altro che la copia conforme di soluzioni facili e riconoscibili.

Nel giocare molto sulle attese, contenere e accumulare l’energia in cicli e ripetizioni per poi esplodere, ricorda quello che già  si ascoltava fin dalle loro produzioni storiche (“Frizzle Fry” per dirne una).
Direi che rispetto a quei momenti non si avverte quasi più la durezza metal, piuttosto sembra riemergere uno spirito di destrutturazione e ricerca che si avvicina al progressive e a qualcosa di ancora più anarchico e difficile da definire se non, forse, come “zappiano”, per rendere l’idea della convivenza di libertà  di schemi e padronanza dei propri mezzi.

Restano come impronte digitali inconfondibili il funk, il divertimento, i ritmi cadenzati portati principante dal basso, su cui la voce corrosiva e il resto degli strumenti si inseguono sorpassandosi, marciano, scivolano, inciampano, rotolano, in una specie di colonna sonora ideale per una clown army.
Nel corso della loro carriera alcuni li hanno visti come dei virtuosi che volessero atteggiarsi a primitivi, e a rigor di logica facendo 2+2 potrebbe essere detto anche di questo album, tuttavia a me il loro stile dalle linee grosse e pesanti e piene di colore ricorda quello che diceva Picasso della pittura: ci voglio anni per imparare di nuovo a esprimersi come bambini.
Il disco attinge le emozioni nette dell’infanzia che fanno sembrare tutto grande, i pericoli, la posta in gioco, le sconfitte e le vittorie, qualcosa di molto più energico e vero del troppo disincantato minimalismo imperante.

Sarà  meno straripante di “Pork Soda”, o meno compatto di “Sailing the Seas of Cheese”, loro indimenticabili produzioni degli anni 90, eppure dimostra secondo me che sono ancora capaci di attingere ispirazioni forti ed originali, e di mettere al servizio di queste la propria grande carica di esseri umani appassionati, ricchi dei loro vissuti e delle proprie abilità  non ingrigite di grandi strumentisti.