You’ve got to make people feel the hurt and love in each song“. A dirlo era Sharon Jones, morta l’anno scorso dopo una lunga battaglia contro il cancro. La sua è una è una storia di fatica e riscatto, come dimostra la regista Barbara Kopple in un bel documentario chiamato “Miss Sharon Jones!”. Dopo essersi trasferita dalla natia Georgia a New York con la madre e la sorella Willa, in fuga da un marito e padre violento, Sharon ha scoperto il funk e il soul. E ha capito che la sua voce potente, allenata da anni di gospel, era adattissima a quei ritmi gioiosi e sfrenati. Scontrandosi spesso con un’industria discografica che in lei non credeva, che voleva relegarla nelle retrovie. Decisa a non mollare Miss Sharon ha fatto ogni tipo di lavoro (anche la guardia carceraria a Rikers Island) per mantenersi mentre continuava a cantare soprattutto in veste di corista, a un passo dalla ribalta. “20 Feet From Stardom”per dirla come Morgan Neville che ha raccontato la vita precaria di tante backup singers nel documentario omonimo.

La svolta nella carriera di Sharon Jones è arrivata nel 1996 quando Gabriel Roth, leader e produttore dei The Dap-Kings, le ha proposto di entrare nella sua band. Aveva già  più di quarant’anni Miss Sharon e ormai sapeva di dover lottare con ogni mezzo, anche a costo di dover creare una propria etichetta (la Daptone, fondata insieme a Roth e Neal Sugarman) visto che il mix di sound Motown e Stax che i The Dap-Kings proponevano non interessava i discografici (almeno fino a quando non è arrivata Amy Winehouse) e ristrutturare una vecchia casa a Brooklyn ricavandone uno studio di registrazione (la Daptone House of Soul) per avere completa indipendenza e libertà  creativa. La rivincita di Sharon Jones è cominciata a piccoli passi con “Dap Dippin’ with Sharon Jones and the Dap-Kings” nel 2002 ed è proseguita nei sei dischi successivi, tra tour mondiali e concerti sempre più spesso sold out. E alla fine Miss Sharon si è presa la soddisfazione non solo di collaborare con artisti del calibro di Lou Reed (in “Berlin”) o Fatboy Slim ma anche di vedere “Give The People What They Want” candidato ai Grammy nel 2015, quando era già  malata.

“Soul Of a Woman” è un disco postumo ma non è la classica operazione mangia soldi fatta in fretta e furia. E’ l’album a cui Miss Sharon e i The Dap-Kings stavano lavorando l’anno scorso, prima che le sue condizioni si aggravassero definitivamente. Equamente diviso tra ballate orchestrali (“These Tears (No Longer For You”)) soul (“Sail On!”, “Searching For A New Day”) e funk (“Rumors”). Sembra quasi di vederla Sharon Jones che sale sul palco e, circondata dagli immancabili The Dap-Kings, canta per ore con un’energia contagiosa e una presenza scenica che a tanti ricordava James Brown (che di lei si è accorto prima di molti altri). Sembra quasi di sentirla che scherza col “fratellone” Charles Bradley, “the screaming eagle of soul”, compagno di tante battaglie e altra bella voce recentemente scomparsa. Solo uno dei tanti artisti a cui la Daptone ha dato un’opportunità , in un rooster piuttosto vario che comprendeva e ancora comprende Antibalas, The Budos Band, The Mystery Lights.

“Soul Of A Woman” però mostra soprattutto il lato più intimo di Sharon Jones, quello più toccante. La sua voce non ha mai ricordato così tanto quella di Nina Simone forte e vulnerabile allo stesso tempo, soprattutto in brani di rara dolcezza come “Pass Me By”, “When I Saw Your Face”, “Just Give Me Your Time”. “Call On God”, registrata durante le session di”100 Days, 100 Nights” e poi accantonata, doveva essere inclusa in un album gospel mai realizzato e alle radici gospel ritorna anche grazie alla partecipazione del The Universal Church of God Choir. “Soul Of A Woman” nonostante le circostanze in cui è stato registrato è un album incredibilmente ottimista (“It’s a matter of time before wrongs will be righted” canta Miss Sharon in “Matter Of Time”) e pieno di speranza. Fa quello che il titolo promette: mette a nudo l’anima di una donna di talento che ha sempre affrontato la vita con grinta e passione.