Incontrare un amico non stanca mai. Anche quando ti parla del più e del meno, anche quando non ti porta per avventure straordinarie e nemmeno ti soccorre in extremis sull’orlo di qualche baratro. La sua presenza e autenticità , la sua “normalità ” è altrettanto preziosa e densa di significato.
Questo per dire che il nuovo lavoro di Ben Frost potrebbe forse sapere di già  sentito e di abbastanza prevedibile per chi lo segue da tempo se, come mi sembra andando a ritroso tra le sue pubblicazioni, ci sono stati momenti della sua carriera in cui ha osato e sperimentato in modo più estroverso ed evidente. Tuttavia il piacere e l’interesse nell’ascoltarlo sembrano trascendere la carenza di colorazioni emotive e quasi ogni brano riesce a trasmettere una forza ispirata e ispiratrice, immaginifica e sognante, ricca di spessore e di sfumature.

Mi è piaciuto molto il primo impatto di “Threshold of Faith”, dove sembra di percepire l’incedere e il respiro di un mostro sottomarino o sotterraneo. Nella lentezza si avverte tensione, di cose vive ma dormienti, che attendono di essere risvegliate.Si sviluppano e intrecciano più variegate armonie e melodie nella seguente “A sharp blow in passing”, un cammino sul bordo di rive oscure, attraversate da ombre improvvise, avvolte in echi ventosi e lirici.

Meno gradevole forse, e magari proprio per questo più provocatoria e intrigante, “Trauma theory” è un raschiamento elettronico nevrotico e compulsivo, che sfocia in scampanii dissonanti. Subito dopo i pochi secondi di “A single hellfire missile costs $100,000” tagliano la scena, furtivi come spettri, per scomparire misteriosamente.

“Eurydice’s heel” ha qualcosa di doloroso nel cercare un incontro tra metri e melodie, un accordo che si rompe continuamente per tornare a ricucirsi come una fatica di Sisifo, in cui ogni struttura abbozzata torna a polverizzarsi. Ormai arresa alla disfatta di ogni costruzione verticale e razionale, lasciandosi ondeggiare dolcemente trascorre “Meg Ryan’s Eyez”.

“Ionia” è più compessa, strutturata, tesa, un altro dei momenti più riusciti dell’album a mio parere, a cui la successiva, fin troppo eterea “Healthcare” non sembra farcela ad aggiungere veramente nulla. Più cupamente scava “All that you love will be eviscered”, con alternanze di morbidezze e rugosità , attriti e rarefazioni estreme.

Chiude “Entropy in blue”, quasi promettendo un possibile sviluppo più rumoristico e caotico quando ormai il tempo ahimè è scaduto, e non resta quindi che dichiararsi o meno soddisfatti del minimalismo scelto.

Mi sembra di trovarmi immersa nella pittura di un quadro più che apocalittico, già  post-apocalittico, a distruzione avvenuta e nei moti circolari e indifferenti degli elementi naturali, sotto stelle fredde ai destini della specie umana, ormai fallita e scomparsa senza lasciare molta traccia di sè.
Anche se personalmente potrei preferire cose meno rarefatte, ho l’impressione che Ben Frost abbia fatto esattamente quello che intendeva, rischiando per di più e sperimentando a suo modo nel rinunciare alla propria abituale autosufficienza, per collaborare nella registrazione con Steve Albini nel suo studio di Chigago, quindi non posso che ritenerla una prova tutto sommato positiva.

Credit Foto: Salar Kheradpejouh